Ma quando arrivò sul prato retrostante le villette, il cane era scomparso.

Corse fino allo steccato in legno di pino e guardò al di là. Niente. Si voltò di scatto per vedere se per caso il cane stesse tornando indietro per un altro percorso.

Non c'era alcun cane.

Si aggirò per un'ora in quei dintorni, le gambe tremanti, invano cercando, chiamando di continuo: «Vieni qui, bello, vieni qui!»

Infine tornò con passo strascicato verso casa, sul viso una maschera di disperata delusione. Imbattersi in un essere vivente, dopo tutto quel tempo, trovare finalmente una compagnia e perderla così. Anche se era soltanto un cane. Soltanto un cane? Per Robert Neville quel cane rappresentava il culmine dell'evoluzione del pianeta.

Non riuscì a mangiare né a bere niente. Sentì di stare male e di continuare a tremare per il colpo di quella perdita, tanto che dovette sdraiarsi. Ma non riuscì a dormire. Rimase disteso tremando febbrilmente, muovendo la testa da una parte all'altra del basso cuscino.

«Vieni qui, bello» continuò a mormorare senza rendersene conto. «Vieni qui, bello. Non voglio farti del male.»

Durante il pomeriggio cercò di nuovo. Per due isolati in tutte le direzioni esaminò ogni campo, ogni strada, ogni villetta. Ma non trovò niente.

Quando tornò a casa, circa alle cinque, mise fuori una scodella di latte e una polpetta. Intorno vi pose un anello di bulbi d'aglio, sperando che i vampiri non toccassero niente.

Ma più tardi gli venne in mente che anche il cane potesse essere infetto e che l'aglio avrebbe tenuto lontano anche lui. Questo però non lo capiva. Se il cane aveva i germi, come poteva vagabondare per le strade alla luce del sole? A meno che non avesse una quantità molto piccola di bacilli nelle vene, tale da non esserne ancora stato infettato. Ma se era vera questa ipotesi, in che modo era sopravvissuto agli attacchi notturni?

"Ah, Dio" pensò allora "e se tornasse qui stanotte per il cibo e loro lo uccidessero?" E se l'indomani mattina fosse uscito e avesse trovato il corpo del cane sul prato, sapendo di essere il responsabile della sua morte? "Non potrei sopportarlo" pensò con tristezza. "Mi ucciderò se ciò accadrà, giuro che lo farò."

Il pensiero fece di nuovo riaffiorare l'insoluto problema del perché continuasse a vivere. D'accordo, c'erano alcune possibilità di ricerca adesso, ma la vita era ancora una croce. Nonostante tutte le cose che aveva o poteva avere (eccetto, naturalmente, un altro essere umano), la vita non prometteva miglioramenti e nemmeno mutamenti. Visto il modo in cui le cose si stavano mettendo, Neville avrebbe vissuto la sua vita con niente di più di quanto già non avesse. E per quanti anni? Trenta, forse quaranta se non avesse bevuto tanto da morirne.

Il pensiero di altri quarant'anni di quella vita lo fece rabbrividire.

E ancora non si era ammazzato. Era vero, non aveva alcun rispetto per la propria salute. Non mangiava nel modo giusto, o beveva nel modo giusto, o dormiva nel modo giusto, o faceva altro nel modo giusto. La sua salute non sarebbe durata all'infinito; aveva già il sospetto di avere tirato troppo la corda.

Però, trascurare il proprio corpo non era un suicidio. Non si era nemmeno mai avvicinato al suicidio. Perché?

Sembrava che non ci fosse risposta. Non si era rassegnato a niente, non aveva accettato né si era adattato alla vita alla quale era stato costretto. Era ancora lì, otto mesi dopo la morte dell'ultima vittima dell'epidemia, nove da che aveva parlato a un altro essere umano, dieci da quando Virginia era morta. Era lì, senza futuro e con un presente praticamente disperato. E ancora lottava.

Istinto? O era semplicemente stupido? Troppo scarso di fantasia per distruggersi. Perché non lo aveva fatto all'inizio, quando era ancora affranto? Che cosa lo aveva spinto a sbarrare la casa, a installare un congelatore, un generatore, una stufa elettrica, una cisterna per l'acqua, a costruire una serra, un banco di lavoro, a bruciare le case intorno alla sua, a radunare dischi e libri e montagne di cibi in scatola, persino (era incredibile se vi si pensava) persino a mettere una stampa decorativa alla parete?

La volontà di vivere era forse qualcosa di più di una parola? Era una forza ben definita che dominava la sua mente? La natura manteneva in qualche modo la sua scintilla anche in contrapposizione ai suoi stessi abusi?

Chiuse gli occhi. Perché pensare, perché ragionare? Non c'era risposta. La sua sopravvivenza era un incidente e una continua ottusità. Era proprio troppo stupido per porre fine a tutto, e questa era più o meno la risposta.

Più tardi incollò i pezzi della stampa e li rimise a posto. I tagli non si vedevano troppo, a meno di non avvicinarsi molto alla parete.

Cercò per un poco di tornare al problema dei bacilli, ma si rese conto che non avrebbe potuto concentrarsi su niente che non riguardasse il cane. Con sua grandissima meraviglia, più tardi si trovò a pregare, con voce esitante, affinché il cane fosse protetto. Fu questo un momento nel quale sentì un disperato bisogno di credere in un dio che avesse cura delle sue creature. Ma, pur pregando, provò una fitta di rimorso e capì che avrebbe potuto cominciare a deridere la propria preghiera in qualsiasi momento.

Tuttavia in qualche modo cercò di ignorare il suo Io iconoclastico e continuò a pregare. Perché voleva il cane, perché aveva bisogno del cane.

 

13

 

Al mattino, quando uscì, trovò che il latte e la polpetta erano spariti.

Il suo sguardo si spostò velocemente sul prato. C'erano due donne raggomitolate sull'erba, ma il cane non c'era. Sospirò con sollievo. "Grazie, Signore" pensò. Poi sogghignò. "Se fossi religioso, adesso" pensò "avrei trovato in questo una giustificazione alla mia preghiera."

Subito dopo cominciò a rimproverarsi di non essere stato sveglio quando era venuto il cane. Doveva essere venuto all'alba, quando le strade erano sicure. Il cane doveva aver trovato un sistema per poter vivere così a lungo. Però, sarebbe stato suo dovere rimanere sveglio a far la guardia.

Si consolò con la speranza di conquistarlo sia pure soltanto attraverso il cibo. L'idea che il cibo fosse stato preso dai vampiri e non dal cane lo preoccupò per un poco. Ma un rapido controllo lo rassicurò. La polpetta non era stata sollevata dall'anello di aglio, ma trascinata attraverso questo, lungo il portico. E tutto intorno alla scodella c'erano piccoli spruzzi di latte, ancora umidi, che potevano essere stati fatti soltanto dalla lingua di un cane.

Prima di fare colazione mise fuori dell'altro latte e un'altra polpetta, collocandoli all'ombra cosicché il latte non si scaldasse troppo. Dopo una rapida meditazione, mise anche una scodella di acqua da bere.

Poi, dopo aver mangiato, portò le due donne al rogo e, tornando, si fermò al supermercato e prese due dozzine di barattoli del miglior cibo per cani e altrettante scatole di biscotti per cani, di dolciumi, di sapone, di insetticida e una spazzola metallica.

Oddio, si potrebbe supporre ch'io abbia un bambino, pensò, mentre tornava alla macchina con le braccia piene. Sulle labbra gli tremolò un sorriso. "Perché fingere?" pensò. "Sono emozionato come non mi succedeva almeno da un anno." L'impazienza provata per la scoperta dei germi al microscopio non era nulla in confronto a quel che provava verso il cane.

Tornò a casa a centoventi all'ora, e non riuscì a trattenere un grugnito di contrarietà quando vide che il cibo e l'acqua non erano stati toccati. "Be', che diavolo ti aspetti?" si domandò sarcastico. "Il cane non può mangiare a tutte le ore."

Deposto il cibo per cani e tutto il resto sul tavolo della cucina, guardò l'orologio. Dieci e un quarto. Il cane sarebbe tornato quando gli fosse tornata la fame. "Pazienza" si disse. "Dimostra almeno una virtù."

Ripose i barattoli e le scatole. Poi ispezionò l'esterno della villetta e la serra. C'era un'asse divelta da sistemare e un pannello di vetro da sostituire sul tetto della serra.

Nel raccogliere i bulbi di aglio, si chiese ancora una volta per quale motivo i vampiri non avessero mai dato fuoco alla villetta. Sembrava una tattica talmente ovvia. Possibile che avessero paura dei fiammiferi? Oppure erano semplicemente troppo stupidi? Dopo tutto, i loro cervelli potevano non funzionare appieno come in precedenza. Il mutamento, dalla vita a una morte mobile, doveva aver portato a un certo deterioramento dei tessuti.

No, quella teoria non serviva a niente, perché di notte intorno alla casa c'erano anche quelli vivi. Nei loro cervelli non c'era nulla di guasto, no?

Smise di pensarvi. Non aveva voglia di porsi problemi. Occupò il resto della mattinata a preparare e ad appendere collane di aglio. Si domandò una volta perché mai i bulbi di aglio funzionassero. Nella leggenda si trattava sempre delle infiorescenze della pianta di aglio. Scosse le spalle. Che differenza faceva? La forza dell'aglio consisteva nella sua capacità di fugare i vampiri; suppose che le infiorescenze potessero funzionare altrettanto bene.

Dopo mangiato, sedette allo spiraglio a tener d'occhio la scodella e il piatto. Non si udiva alcun rumore, a eccezione del ronzio poco avvertibile del ventilatore in camera da letto, nel bagno e nella cucina.

Il cane giunse alle quattro. Neville si era quasi appisolato, seduto di fronte allo spiraglio. Sbatté gli occhi e rimise a fuoco lo sguardo mentre il cane si avvicinava zoppicando lentamente lungo la strada, osservando cautamente la villetta con gli occhi cerchiati di bianco. Si chiese che cosa avesse il cane alla zampa. Desiderava davvero sistemargliela, e conquistarsi l'affetto del cane. "Ricordi di Androclo" pensò nell'oscurità della casa.

Si costrinse a rimanere seduto a guardare. Era incredibile, quella sensazione di calore e di normalità che gli dava vedere il cane lappare il latte e mangiare la polpetta, le mascelle che masticavano e biascicavano con gusto. Rimase seduto, con un amabile sorriso sulle labbra, un sorriso di cui non era neppure cosciente. Era un cane talmente simpatico.

Deglutì nervosamente mentre il cane finiva di mangiare e si allontanava in fretta dal portico. Saltò su dallo sgabello, muovendosi in fretta verso la porta.

Poi si trattenne. No, non era quello il modo, decise con riluttanza. "Uscendo, finiresti per spaventarlo. Lascia che vada, ora, lascia che vada."

Tornò allo spiraglio e osservò il cane che traversava zoppicando la strada e si infilava di nuovo tra quelle due villette. Sentì stringersi la gola nel vederlo andar via. "Va tutto bene", si consolò. "Tornerà."

Si distolse dallo spiraglio e si preparò un cocktail leggero. Seduto in poltrona a sorseggiarlo lentamente si chiese dove si nascondesse il cane durante la notte. Dapprima si era preoccupato per il fatto di non averlo in casa con sé. Ma poi si era reso conto che il cane doveva essere un maestro nel nascondersi, per aver resistito tanto a lungo.

Era probabilmente una di quelle bizzarrie del caso, si disse, che non seguono alcuna legge statistica. In un modo o nell'altro, per fortuna, per coincidenza, magari un poco per abilità, quell'unico cane era sopravvissuto all'epidemia e alle macabre vittime di essa.

Questo lo portò a riflettere. Se un cane, con la sua intelligenza limitata, poteva riuscire a sopravvivere a tutto ciò, non era possibile che un individuo dotato di un cervello razionale potesse avere ancora maggiori probabilità di sopravvivenza?

Si costrinse a pensare ad altro. Era pericoloso sperare. Era questa una verità che aveva accettato ormai da molto tempo.

La mattina seguente il cane tornò ancora. Questa volta Robert Neville aprì la porta d'ingresso e uscì. Il cane balzò via immediatamente dalla scodella e dal piatto, l'orecchio destro ripiegato all'indietro, le zampe che si agitavano freneticamente nell'attraversare la strada.

Neville dovette reprimere l'impulso di corrergli dietro. Con tutta l'indifferenza di cui era capace, sedette sul gradino del portico.

Dall'altro lato della strada, il cane corse di nuovo tra le due villette e scomparve. Dopo essere rimasto seduto per un quarto d'ora, Neville rientrò.

Dopo una rapida colazione, mise fuori dell'altro cibo.

Il cane tornò alle quattro e Neville uscì di nuovo, assicurandosi questa volta che il cane avesse finito di mangiare.

Ancora una volta il cane fuggì. Ma questa volta, accortosi di non essere inseguito, si fermò dal lato opposto della strada e per un attimo si guardò indietro.

«Tutto bene, bello» disse a voce alta Neville, ma al suono della sua voce il cane riprese a correre.

Neville rimase seduto sotto il portico, i denti serrati per l'impazienza. "Accidenti al cane, perché ce l'ha con me?" pensò. "Bastardo maledetto!"

Si costrinse a pensare a quel che doveva aver passato il cane. Le interminabili notti trascorse a strisciare nell'oscurità, nascosto Dio sa dove, il torace sparuto che ansimava mentre tutt'intorno alla sua forma tremante si aggiravano i vampiri. Procacciarsi cibo e acqua, lottare per sopravvivere in un mondo senza più padroni, costretto in un corpo che l'uomo aveva reso dipendente.

"Poveretto" pensò. "Sarò buono con te quando verrai a vivere qui."

Forse, gli venne di pensare, un cane aveva maggiori probabilità di sopravvivere che non un uomo. I cani erano più piccoli, potevano nascondersi in luoghi irraggiungibili dai vampiri. Potevano forse avvertire la natura estranea di chi stava loro intorno, probabilmente al fiuto.

Questo non lo rese affatto più felice. Da sempre, a dispetto della ragione, si era aggrappato alla speranza che un giorno avrebbe trovato qualcuno simile a lui: un uomo, una donna, un bambino, non aveva importanza. Il sesso perdeva rapidamente il suo significato senza l'incessante stimolo delle comunicazioni di massa. La solitudine la provava ancora.

A volte si era perduto in fantasticherie di trovare qualcuno. Più spesso, però, aveva cercato di adeguarsi a quel che sinceramente credeva inevitabile: che lui fosse in realtà l'unico rimasto al mondo. Per lo meno in tutto il mondo che poteva sperare di conoscere.

Perduto in questi pensieri, quasi non si accorse che stava calando la sera.

Con un soprassalto alzò lo sguardo e vide Ben Cortman correre verso di lui dalla parte opposta della strada.

«Neville!»

Balzò in piedi e si rifugiò in casa, chiudendo e sprangando la porta con mani tremanti.

 

Per un certo periodo continuò a uscire sotto il portico non appena il cane aveva finito di mangiare. Ogni volta che usciva, il cane correva via, ma con il passare dei giorni prese a fuggire sempre meno velocemente, e presto si fermò in mezzo alla strada per guardarlo e abbaiare verso di lui. Neville non lo seguì mai, ma sedeva sotto il portico e lo guardava. Era come un gioco tra loro.

Poi un certo giorno Neville sedette sotto il portico prima che il cane giungesse. E, quando questi comparve dall'altro lato della strada, rimase seduto.

Per circa un quarto d'ora il cane si aggirò con sospetto vicino al marciapiede, timoroso di avvicinarsi al cibo. Neville rimase alla maggiore distanza possibile dal cibo per dare coraggio al cane. Senza pensarvi, incrociò le gambe e il cane si ritrasse a quel movimento inaspettato. Allora Neville rimase tranquillo e il cane continuò a muoversi inquieto in mezzo alla strada, lo sguardo che passava da Neville al cibo e viceversa.

«Su bello» lo incitò Neville. «Mangia, sei un bravo cane.»

Passarono altri dieci minuti. Il cane stava ora sul prato, muovendosi in semicerchi concentrici che si facevano sempre più ristretti.

Il cane si fermò. Poi, lentamente, molto lentamente, una zampa per volta, cominciò a muoversi verso il piatto e la scodella, senza che i suoi occhi lasciassero mai Neville neppure per un secondo.

«Bravo piccolo» disse con calma Neville.

Questa volta il cane non si ritrasse né fuggì al suono della sua voce. Tuttavia Neville badò a rimanere immobile per non spaventare il cane con qualche brusco movimento.

Il cane si avvicinò ancora di più, puntando sul piatto il corpo teso e pronto a ogni minimo movimento da parte di Neville.

«Così va bene» disse Neville al cane.

Di colpo il cane scattò e azzannò la carne. La risata compiaciuta di Neville seguì la sua fuga frenetica ed erratica verso il centro della strada.

«Piccolo figlio di puttana» disse con ammirazione.

Poi rimase seduto a osservare il cane mangiare. Si era accucciato in una zona segnata di giallo al di là della strada, gli occhi fissi su Neville mentre divorava la polpetta. "Goditela" pensò osservando il cane. "D'ora in avanti avrai cibo per cani. Non posso più permettermi di trattarti a carne fresca."

Quando il cane ebbe finito la polpetta, si raddrizzò e traversò di nuovo la strada, un poco meno esitante. Neville rimase ancora seduto, sentendo il cuore battergli per l'ansia. Il cane cominciava a fidarsi di lui, e questo in un certo modo lo emozionava. Rimase seduto, gli occhi fissi sul cane.

«Molto bene, piccolo» si udì pronunciare a voce alta. «Prendi l'acqua, adesso, bravo cane.»

Un improvviso sorriso compiaciuto gli increspò le labbra allorché vide l'orecchio sano del cane sollevarsi. "Mi ascolta!" pensò eccitato. "Capisce quello che dico, il piccolo figlio di puttana!"

«Su, bello» continuò a parlare con ansia. «Prendi l'acqua e il latte, ora, bravo piccolo. Non voglio farti male. Su, da bravo.»

Il cane si avvicinò all'acqua e bevve con avidità, sollevando la testa con scatti improvvisi per guardar lui, poi riabbassandola di nuovo.

«Non ti faccio niente» disse Neville al cane.

Non poté fare a meno di notare quanto suonasse strana la sua voce. Quando un uomo non ode il suono della propria voce per quasi un anno, gli sembra davvero strana. Un anno è un lungo periodo da vivere in silenzio. "Quando verrai a vivere con me" pensò "ti stordirò di parole."

Il cane finì l'acqua.

«Vieni qui, bello» lo invitò Neville, battendosi sulla gamba «Avanti.»

Il cane lo osservò incuriosito, sollevando l'orecchio sano. Quello sguardo, pensò Neville. Quale mondo di sensazioni in quello sguardo. Sfiducia, paura, speranza, solitudine: tutto era riflesso in quei grandi occhi castani. Povero piccolo.

«Avanti, bello, non ti farò del male» disse dolcemente.

Poi si alzò e il cane fuggì via. Neville rimase lì a guardare il cane che scappava, scuotendo lentamente la testa.

Passarono diversi giorni. Ogni giorno Neville sedeva sotto il portico mentre il cane mangiava e non passò molto tempo che il cane prese ad avvicinarsi al piatto e alle scodelle senza esitare, quasi con baldanza, con la sicurezza del cane che sa di aver conquistato un uomo.

E per tutto il tempo Neville continuò a parlargli

«Bravo piccolo. Mangia. È buono, vero? Certo che è buono. Sono tuo amico. Ti ho dato io quel cibo. Mangia, piccolo, da bravo. Che bravo cane.» Continuò a blandirlo mentre mangiava, a lodarlo, a riempirgli le orecchie di parole dolci per la spaventata mente del cane.

E ogni giorno sedeva un poco più accosto al cane, finché venne il giorno in cui avrebbe potuto allungare la mano e toccarlo se si fosse proteso un poco. Non lo fece, però. "Non devo correre rischi" si disse. "Non voglio spaventarlo."

Ma era difficile tenere immobili le mani. Poteva quasi sentirle contrarsi con forza per il prepotente desiderio di protendersi e di accarezzare la testa del cane. Aveva una tale voglia di tornare ad amare qualcuno e il cane era di una bruttezza meravigliosa.

Continuò a parlare al cane finché questi si fu del tutto abituato al suono della sua voce. Difficilmente ora alzava gli occhi quando gli parlava. Arrivava e partiva senza trepidazione, mangiava e abbaiava la sua brusca riconoscenza dall'altro lato della strada. "Tra non molto" si disse Neville "potrò carezzargli la testa." I giorni trascorsero e diventarono piacevoli settimane, e ogni ora lo avvicinava al futuro compagno.

Ma un giorno il cane non comparve.

Neville era trepidante. Si era tanto abituato all'andare e venire del cane che questo era diventato il fulcro della sua giornata, ogni cosa faceva corona ai pasti del cane, le ricerche erano dimenticate, messa da canto ogni cosa che non fosse il suo desiderio di avere in casa il cane.

Passò un pomeriggio di tormentoso nervosismo a far ricerche nei dintorni chiamando il cane a voce alta. Ma ogni ricerca non servì a nulla e dovette tornarsene a casa per una cena senza sapore. Il cane non si presentò per l'ora di cena né la mattina all'ora di colazione. Di nuovo Neville si mise a cercarlo, ma con minori speranze. Lo avevano preso, le parole continuavano a ronzargli nella testa, quegli sporchi bastardi lo avevano preso. Ma non riusciva a credervi del tutto; né se lo sarebbe consentito.

Nel pomeriggio del terzo giorno si trovava nella rimessa quando udì tintinnare al di fuori le ciotole di metallo. Con il fiato mozzo corse nella luce del giorno.

«Sei tornato!» esclamò.

Il cane balzò via dal piatto, nervoso, con l'acqua che gli gocciolava dalle fauci.

A Neville balzò il cuore in gola. Il cane aveva gli occhi ardenti e sembrava che gli mancasse l'aria: la lingua nera gli penzolava tra i denti.

«No» mormorò con voce rotta «oh, no.»

Il cane indietreggiò ancora sul prato, con zampe instabili. Rapido, Neville sedette sui gradini del portico e attese, tremando. "Oh, no" pensò angosciato "oh Dio, no."

Rimase a guardarlo lappare l'acqua, con un tremito intermittente. "No. No. Non è vero."

«Non è vero» mormorò quasi senza rendersene conto.

Poi, d'istinto, allungò la mano. Il cane indietreggiò un poco, scoprendo i denti in un ringhio gutturale.

«Tutto bene, bello» disse con calma Neville. «Non voglio farti del male.» Non sapeva neppure che cosa stesse dicendo.

Non riuscì a impedire che il cane si allontanasse. Tentò di seguirlo, ma quello scomparve prima che potesse scoprirne il nascondiglio. Decise che doveva essere sotto qualche villetta, ma non gli servì a molto.

Quella notte non riuscì a dormire. Continuò a camminare irrequieto, bevendo tazze di caffè e maledicendo la lentezza del tempo. Doveva riuscire a ritrovare il cane, doveva riuscirvi. E presto. Doveva curarlo.

Ma come? Deglutì nervosamente. Doveva esserci un modo. Per quanto scarse fossero le sue conoscenze, un modo doveva pur esserci.

Il mattino seguente sedette proprio accanto alla scodella e sentì che le labbra gli tremavano quando il cane attraversò zoppicando lentamente la strada. Non mangiò nulla. Il suo sguardo era più spento e indifferente del giorno prima. Neville avrebbe voluto saltargli addosso e cercare di immobilizzarlo, trascinarlo in casa, nutrirlo.

Sapeva però che se si fosse slanciato e non l'avesse preso avrebbe guastato tutto. Il cane sarebbe potuto non tornare più.

Durante tutto il pasto, continuò a sentire nella mano l'impulso di accarezzare la testa del cane. Ma a ogni tentativo del genere il cane si ritraeva ringhiando. Provò a imporsi. «Smettila!» disse con tono fermo e irritato, ma arrivò soltanto a spaventare maggiormente il cane che si allontanò da lui ancora di più. Neville dovette parlargli per un quarto d'ora, la voce ridotta a un rauco tremolio, prima che il cane tornasse verso l'acqua.

Questa volta fece in modo di seguire il cane intorpidito e vide sotto quale villetta andava a rincantucciarsi. C'era un piccolo riparo metallico che avrebbe potuto mettere sopra l'apertura, ma non lo fece. Non voleva spaventare il cane. E per di più, non ci sarebbe stato altro modo di arrivare al cane salvo che attraverso il pavimento, e ci sarebbe voluto troppo tempo. Doveva prendere il cane in fretta.

Quando il cane non tornò quel pomeriggio, prese una scodella di latte e la pose sotto la villetta dove stava il cane. Il mattino dopo la scodella era vuota. Stava per mettervi ancora del latte, quando si rese conto che in quel modo il cane non avrebbe più abbandonato la sua tana. Portò di nuovo la scodella davanti alla sua casa e pregò che il cane fosse forte abbastanza da poterla raggiungere. Era troppo preoccupato anche per ironizzare sulla sua inetta preghiera.

Quando quel pomeriggio il cane non tornò, andò a dare un'occhiata. Passeggiò avanti e indietro davanti all'apertura e stava quasi per mettere ancora il latte. No, così il cane non sarebbe mai uscito.

Tornò a casa e passò una notte insonne. Il cane al mattino non venne. Neville si recò ancora alla casa. Rimase in ascolto davanti all'apertura, ma non riuscì a sentire alcun respiro. O era troppo lontano perché potesse udirlo, oppure...

Tornò verso casa sua e sedette sotto il portico. Non fece colazione né mangiò più tardi. Rimase seduto ad aspettare.

Quel pomeriggio, sul tardi, il cane apparve zoppicando tra le due villette, muovendosi lento sulle zampe scheletriche. Neville si costrinse a rimanere seduto senza muoversi finché il cane ebbe raggiunto il cibo. Poi, rapido, si lanciò e agguantò il cane.

Questo tentò immediatamente di morderlo, ma Neville gli afferrò il muso con la mano destra e gli tenne chiuse le mascelle. Il corpo scarno e spelacchiato della bestia si contorse debolmente nella sua stretta e pietosi mugolii di paura gli risuonarono nella gola.

«Tutto bene» continuò a dirgli. «Tutto bene, piccolo.»

Velocemente lo portò nella sua camera e lo depose sulla cuccia di coperte che aveva preparato per lui. Appena gli tolse la mano dal muso, il cane fece per azzannarla, ma lui la ritrasse di scatto. Il cane, zampettando freneticamente sul pavimento di linoleum, si lanciò verso la porta. Con un balzo Neville gli tagliò la strada. Le zampe del cane scivolarono sulla liscia superficie, poi il cane riuscì a fermarsi e si nascose sotto il letto.

Neville si mise in ginocchio e vi guardò sotto. Nella penombra scorse i due carboni accesi degli occhi e udì il faticoso ansimare.

«Vieni, bello» lo chiamò con tristezza. «Non voglio farti male. Sei malato. Hai bisogno di aiuto.»

Il cane non si mosse. Sbuffando, Neville infine si rialzò e uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Andò a prendere le scodelle, le riempì di latte e di acqua. Le depose nella camera da letto, vicino alla cuccia del cane.

Rimase vicino al letto per un po', ad ascoltare l'ansito del cane, con una smorfia di dolore sul viso.

«Oh» si lamentò «perché non ti fidi di me?»

 

Stava cenando quando udì degli orribili gemiti e latrati.

Spaventato, si alzò di scatto dalla tavola e traversò di corsa il soggiorno. Spalancò la porta della camera da letto e accese la luce.

Nell'angolo vicino al bancone, il cane stava tentando di scavare un buco nel pavimento.

Mugolii di terrore ne scuotevano il corpo mentre con le zampe anteriori raspava furiosamente il linoleum, scivolando sulla superficie liscia.

«Stai buono, bello» disse in fretta Neville.

Il cane si voltò di scatto e si rifugiò nell'angolo, il pelo ritto, le labbra ritratte sulle zanne giallastre, con un ringhio quasi folle che gli risuonava nella gola.

Di colpo Neville comprese cosa stesse accadendo. Era ormai sera e il cane terrorizzato stava cercando di scavarsi un buco in cui nascondersi.

Rimase là smarrito, con la mente che rifiutava di funzionare in modo adeguato, mentre il cane scivolava via dall'angolo, per poi rimpiattarsi sotto il bancone.

Finalmente gli venne un'idea. Si avvicinò in fretta al letto e ne strappò la coperta. Tornato al bancone, si accovacciò e vi guardò sotto.

Il cane stava quasi appiattito contro il muro, tremando violentemente, ringhi gutturali gli gorgogliavano nella gola.

«Da bravo, bello» gli disse. «Da bravo.»

Il cane si ritrasse ancora mentre Neville spingeva la coperta sotto il bancone e si rialzava. Neville tornò verso la porta e vi rimase per un minuto guardandosi indietro. "Se soltanto potessi fare qualcosa", pensò disperato. "Ma non riesco nemmeno ad avvicinarmi a lui."

Bene, decise rabbuiandosi, se il cane non lo avesse accettato presto, avrebbe dovuto provare con il cloroformio. Dopo, almeno, avrebbe potuto lavorare su di lui, sistemargli la zampa e cercare un qualche modo per curarlo.

Tornò in cucina, ma non riuscì a mangiare. Alla fine gettò quel che aveva nel piatto nel tritarifiuti e riversò il caffè dentro la caffettiera. Nel soggiorno si versò da bere: ma aveva un sapore insipido e nauseante. Depose il bicchiere e ritornò nella stanza da letto, col viso scuro.

Il cane si era intrufolato tra le pieghe della coperta e là era rimasto sempre tremante a guaire senza posa. "Inutile tentare di fargli qualcosa adesso" pensò; "è troppo spaventato."

Si diresse al letto e vi sedette. Si passò le mani tra i capelli e poi si coprì il viso. "Curarlo, curarlo" pensò e una mano chiusa a pugno scese a colpire debolmente il materasso.

Allungata di scatto una mano, spense la luce e si distese completamente vestito. Rimanendo disteso, si sfilò i sandali e stette a sentirli cadere sul pavimento.

Silenzio. Giacque con lo sguardo fisso al soffitto. "Perché non mi alzo?" si domandò. "Perché non cerco di fare qualcosa?"

Si voltò sul fianco. "Dormi un poco." Le parole gli vennero meccanicamente. Sapeva bene che non avrebbe dormito. Giacque nel buio ad ascoltare i guaiti del cane. "Muore, sta morendo" continuò a pensare "e non c'è nulla al mondo che io possa fare."

Infine, incapace di sopportare quei suoni, allungò la mano e riaccese la lampada sul comodino. Mentre attraversava la stanza con le sole calze ai piedi, sentì il cane tentare all'improvviso di liberarsi della coperta. Ma si impigliò ancora più nelle pieghe e cominciò a guaire terrorizzato, mentre il corpo si agitava febbrilmente sotto la lana.

Neville gli si inginocchiò accanto e gli posò le mani sul corpo. Udì il ringhio strozzato e il ticchettio soffocato dei denti della bestia che cercava di morderlo attraverso la coperta.

«Buono» disse. «Basta adesso.»

Il cane continuò a dibattersi, senza mai smettere i suoi guaiti acuti; il corpo scarno tremava irrefrenabilmente. Neville mantenne le mani con forza sul suo corpo, spingendolo in basso, parlandogli con calma, con dolcezza.

«Tutto bene, amico, tutto bene. Nessuno ti farà male. Calmati, adesso. Su, da bravo, calmati. Calmati, bello. Su, da bravo, rilassati. Da bravo, calmati. Così. Calmati. Nessuno ti farà del male. Ti curerò.»

Continuò a parlare di tanto in tanto per quasi un'ora, in un basso mormorio ipnotico che risuonava nel silenzio della stanza. Lentamente, a poco a poco, il tremito del cane si calmò. Un sorriso comparve sulle labbra di Neville mentre continuava a parlare, a parlare.

«Tutto bene. Calmati adesso. Ti curerò.»

Ben presto il cane giacque immobile sotto la sua stretta robusta, l'unico movimento era dato dal suo rauco respiro. Neville si mise ad accarezzargli la testa, a passargli la mano destra sul corpo, massaggiando e accarezzando.

«Che bravo cane» disse dolcemente. «Bravo cane. Ti curerò io. Nessuno ti farà del male. Mi capisci, vero, amico? Certo che sì. Certo. Sei il mio cane. Vero che lo sei?»

Cautamente sedette sul freddo linoleum sempre continuando ad accarezzare il cane.

«Sei un bravo cane, un bravo cane.»

La sua voce era calma, tranquilla e rassegnata.

Dopo circa un'ora, prese il cane tra le braccia. Per un momento questi si dibatté e riprese a mugolare, ma Neville gli parlò di nuovo e la bestia si calmò.

Sedette sul letto tenendo il cane sotto la coperta sulle ginocchia. Rimase seduto per ore con in braccio il cane, ad accarezzarlo, a massaggiarlo, a parlargli. Il cane giacque immobile, respirando con più calma.

Erano quasi le undici della notte quando Neville lentamente svolse le pieghe della coperta e scoprì la testa del cane.

Per qualche minuto si scostò dalla sua mano, tentando blandamente di morderla. Ma Neville continuò a parlargli con voce quieta, e dopo un poco gli posò la mano sul collo caldo e cominciò a muovere le dita dolcemente, grattando e accarezzando.

Sorrise al cane, deglutendo.

«Presto starai meglio» gli sussurrò. «Molto presto.»

Il cane lo guardò con occhi opachi e malati e poi allungò la lingua rugosa e gli inumidì il palmo della mano.

A Neville sembrò che qualcosa gli si sciogliesse in gola. Rimase seduto silenzioso mentre le lacrime gli scorrevano lentamente sulle guance.

Una settimana dopo il cane era morto.

 

14

 

Non si abbandonò al bere. Al contrario. Si accorse che beveva sempre meno. Qualcosa era cambiato. Cercando di analizzarlo, giunse alla conclusione che l'ultima sbronza gli aveva fatto toccare il fondo, il punto più basso della frustrazione e della disperazione. Ora, a meno di non scendere sottoterra, l'unica via che gli rimaneva era verso l'alto.

Dopo le prime settimane passate intensamente a dar forma alle sue speranze circa il cane, gli si era lentamente chiarito un fatto: la risposta non poteva essere data dalla speranza. In un mondo di monotono orrore non poteva esserci salvezza in un sogno pazzesco. All'orrore si era adattato; ma l'ostacolo maggiore era la monotonia, e soltanto adesso se ne rendeva conto, soltanto adesso arrivava a comprenderlo. E tale comprensione sembrava dargli una specie di pace serena, la sensazione di aver disteso sul tavolo della mente tutte le carte di cui disponeva, di averle esaminate per arrivare infine alla mano che desiderava.

Seppellire il cane non era stata quella sofferenza che si era atteso. In un certo senso, era come seppellire misere speranze e fallaci emozioni. Da quel giorno aveva imparato ad accettare la prigione in cui viveva, senza cercare di sfuggirne con improvvisa temerarietà né sbattendo la testa contro quelle pareti.

E così, rassegnato, si rimise al lavoro.

Era accaduto quasi un anno prima, diversi giorni dopo che aveva condotto Virginia al suo secondo e definitivo riposo.

Vuoto e depresso, con un senso assoluto di perdita, stava vagando per le strade in un tardo pomeriggio, le mani ciondolanti lungo i fianchi, strascicando i passi al ritmo della disperazione. Sul suo viso non si rifletteva nulla del dolore impotente che provava; l'espressione era vacua.

Aveva vagato per ore lungo le strade, senza sapere dove andasse e senza preoccuparsene. Sapeva soltanto che non poteva tornare nelle stanze vuote della sua casa, non poteva guardare le cose che Kathy e Virginia avevano toccato e posseduto e conosciuto insieme a lui. Non poteva guardare il lettino vuoto di Kathy, i sui abiti appesi immobili e inutili nell'armadio, non poteva guardare il letto in cui aveva dormito con Virginia, gli abiti di Virginia, le sue gioie, tutti i suoi profumi sul comò. Non poteva avvicinarsi alla casa.

E così camminava senza meta e non sapeva dove si trovasse quando la gente cominciò a urtarlo, quando un uomo lo prese per un braccio alitandogli in viso odore di aglio.

«Vieni, fratello, vieni» disse l'uomo, con voce arrochita. Vide il pomo d'Adamo dell'uomo agitarsi come viscida pelle di tacchino, le guance chiazzate di rosso, gli occhi febbrili, il vestito nero spiegazzato e sporco. «Vieni e sii salvo, fratello, salvo.»

Robert Neville fissò l'uomo senza capire. L'uomo cercava di trascinarlo, stringendogli il braccio con dita ossute.

«Non è mai troppo tardi, fratello» disse l'uomo. «La salvezza è per colui che...»

Le sue ultime parole si persero nel crescente mormorio che proveniva dalla grande tenda a cui si stavano avvicinando. Dava l'impressione di un mare imprigionato sotto la tela, ribollente nel tentativo di sfuggirne. Robert Neville tentò di liberarsi il braccio.

«Non voglio...»

L'uomo non gli diede ascolto. Trascinò con sé Neville fino alla cascata di grida e di scalpiccii. Non lo lasciò andare. Robert Neville ebbe l'impressione di essere trascinato dal risucchio di un'onda.

«Ma io non...»

Poi la tenda l'aveva inghiottito, quell'oceano di urla, di scalpiccii, di battimani che lo aveva travolto. Si ritrasse d'istinto mentre il cuore prendeva a battergli con violenza. Si trovò circondato da una folla di centinaia di persone, che si gonfiava e si agitava tutt'intorno a lui come un vortice d'acqua. Gridavano, applaudivano, e vociavano parole che Robert Neville non riusciva ad afferrare.

Poi le grida morirono e Neville udì la voce che colpiva attraverso la penombra come una tagliente condanna, che incombeva stridula attraverso gli altoparlanti:

«Volete ridurvi ad aver paura della santa croce di Dio? Volete guardarvi allo specchio senza vedere la faccia che Dio Onnipotente vi ha dato? Volete strisciare fuori dalla tomba come mostri espulsi dall'inferno?»

La voce ingiungeva rauca, insistente e trascinante.

«Volete essere cambiati in un nero animale immondo? Volete oscurare il cielo della sera con demoniache ali di pipistrello? Vi domando: volete essere trasformati in empie carcasse condannate alla notte, in creature di dannazione eterna?»

«No!» eruppe la gente, terrorizzata. «No, salvaci!»

Robert Neville arretrò, urtando i fedeli dalle mani come flagelli, dai visi bianchi che imploravano pietà dai cieli incombenti.

«Io vi dico! Io vi dico, quindi, ascoltate la parola di Dio! Badate, il male avanza di nazione in nazione e l'uccisione del Signore si ripeterà in questo giorno da un capo all'altro della terra! È menzogna, è menzogna, questa?»

«No! No!»

«Io dico che a meno che non diventiamo come bambini, senza macchia e puri agli occhi del Signore... a meno che non ci leviamo a cantare la gloria di Dio Onnipotente e dell'unico figlio che Egli ha generato, Gesù Cristo, nostro Salvatore... a meno che non ci buttiamo in ginocchio a chiedere perdono per le nostre gravi offese... siamo dannati! Lo ripeto, quindi ascoltate! Siamo dannati, siamo dannati, siamo dannati! Amen!»

«Salvaci

La gente si agitava e gemeva e si batteva la fronte e strillava per il terrore della morte e urlava spaventevoli alleluia.

Robert Neville era sospinto da tutte le parti, barcollante e perduto in un ribollire di speranza, in un fuoco incrociato di fede delirante.

«Dio ci ha puniti per i nostri immensi peccati! Dio ha scatenato la terribile forza della sua onnipotente collera! Dio ha rovesciato su di noi il secondo diluvio... un diluvio, un'inondazione, un torrente distruttore di creature dell'inferno! Egli ha aperto la tomba, Egli ha dissuggellato la cripta. Egli ha rivoltato i morti dalle loro nere tombe... e li ha scagliati su di noi! E la morte e l'inferno hanno liberato i morti che erano in loro! È questa la parola di Dio! O Dio, Tu ci hai puniti; o Dio, Tu hai veduto il volto orribile dei nostri peccati; o Dio, Tu ci hai colpiti con la forza della Tua onnipotente collera!»

Un battere di mani simile al crepitio di un'irregolare scarica di fucileria, corpi come canne ondeggianti in un vento spaventoso, lamenti per la grande morte incombente, grida del vivo che combatte. Robert Neville si fece largo a fatica tra le loro fila agitate, pallido in volto, le mani tese in avanti come un cieco che cerchi riparo.

Fuggì via, debole e tremante, incespicando. Sotto la tenda la gente gridava. Ma la notte era già discesa.

 

Ripensava ora a tutto questo, seduto nel soggiorno, sorseggiando un liquore molto annacquato, con un testo di psicologia sulle ginocchia.

Una citazione aveva dato il via a quei pensieri, riportandolo indietro a quella sera di dieci mesi prima, quando era stato trascinato a quella riunione di fanatici.

Questo stato, conosciuto come cecità isterica, può essere parziale o completo, e comprendere uno, più o tutti gli oggetti.

Quella era la citazione che aveva letto e che lo aveva di nuovo portato a pensare al problema.

Un nuovo passo. Prima, si era impuntato con ostinazione nell'attribuire ai germi la causa di tutti i fenomeni del vampirismo. Se alcuni di quei fenomeni non avevano nessuna relazione con i bacilli, si sentiva incline a catalogarli tra le superstizioni. Era vero, aveva preso vagamente in considerazione le spiegazioni psicologiche, ma non aveva mai dato veramente peso a una tale possibilità. Adesso, liberato infine da quegli ostinati preconcetti, lo fece.

Non c'era motivo, lo sapeva, perché alcuni di quei fenomeni non avessero una causa fisica e altri invece una causa psicologica. E, adesso che lo aveva accettato, sembrava una di quelle ovvie risposte che solamente un cieco avrebbe mancato. "Bene, sono sempre stato il tipo del cieco" pensò con divertimento.

"Considera" si disse poi "il trauma a cui era sottoposta una vittima dell'epidemia."

Verso la fine dell'epidemia, la stampa scandalistica aveva diffuso un estremo terrore dei vampiri in tutto il paese. Ancora ricordava il diluvio di articoli pseudoscientifici che nascondevano una spietata campagna del terrore il cui scopo era di far vendere i giornali.

C'era un che di grottescamente buffo, nel frenetico tentativo di vendere giornali mentre il mondo stava morendo. Non che tutti i giornali si fossero comportati così; i giornali che erano vissuti onestamente e senza ipocrisia erano morti nello stesso modo.

Il giornalismo scandalistico, però, era stato molto attivo negli ultimi giorni. E in aggiunta si era verificato un grande risveglio di fanatismo. Nel tipico desiderio disperato di risposte pronte, facili da capire, la gente si era rivolta a un primitivo fideismo come se fosse questa la soluzione. Non comunque con successo. Non soltanto erano morti con la stessa rapidità degli altri, ma erano morti con il terrore nell'animo, con una paura mortale che gli scorreva nelle vene.

E poi, pensò Robert Neville, avevano visto giustificata quell'orrenda paura. Ritrovare la coscienza sotto la terra calda e pesante, e sapere che la morte non ha portato il riposo. Scoprirsi a scavare nella terra, sentirsi il corpo spinto da uno strano, orrendo bisogno.

Un simile trauma era capace di distruggere quel che fosse rimasto della mente. E simili traumi potevano spiegare molte cose.

La croce, prima di tutto.

Una volta entrata in loro la convinzione di essere respinti da un oggetto che era stato un punto focale di fede, le loro menti potevano rifugiarsi nella follia. Nasceva la paura della croce. E, spinto dalle proprie paure, il vampiro acquisiva un'intensa avversione mentale nei riguardi di se stesso: questo causava un blocco nella sua mente indebolita, portandolo alla cecità nei confronti della sua ormai aborrita immagine. Tutto questo poteva rendere i vampiri solitari, schiavi senz'anima della notte, timorosi di avvicinare chiunque, chiusi in un'esistenza di solitudine, spesso ricercando conforto nel suolo della loro terra nativa, per l'ansia di entrare in comunione con qualcosa, con qualunque cosa.

L'acqua? Questa l'accettava come una superstizione, una trasposizione della leggenda tradizionale secondo cui le streghe erano incapaci di attraversare l'acqua corrente, come nella storia di Tam O'Shanter scritta dal poeta Robert Burns. Streghe, vampiri... in tutti questi esseri temuti, c'era una specie di stretta affinità. Leggenda e superstizione potevano sovrapporsi, e così era.

E i vampiri viventi? Anche questo era chiaro, ormai.

Nella vita c'erano i disadattati, gli alienati. Quale migliore appiglio del vampirismo per costoro? Era sicuro che tutti i viventi che di notte venivano alla sua casa fossero alienati, che si credevano dei veri vampiri per quanto in realtà fossero soltanto dei malati di mente. E questo poteva spiegare il fatto che non avevano mai pensato all'ovvia azione di dar fuoco alla sua casa. Semplicemente non potevano pensare in modo logico.

Gli tornò in mente l'uomo che la notte si era arrampicato in cima al lampione di fronte alla villetta e, mentre Robert Neville guardava attraverso lo spioncino, era balzato nel vuoto, agitando freneticamente le braccia. Al momento Neville non era stato capace di spiegarselo, ma ora la risposta gli appariva ovvia. Quell'uomo aveva creduto di essere un pipistrello.

Neville rimase seduto guardando il bicchiere pieno ancora per metà, con un lieve sorriso sulle labbra.

"Dunque" pensò "un po' per volta, con sicurezza, scopriamo tutto su di loro. Scopriamo che non sono una razza invincibile. Anzi, sono una razza altamente vulnerabile che ha bisogno di alcune ben precise condizioni fisiche per la prosecuzione della sua esistenza dimenticata da Dio."

Depose il bicchiere sul tavolo.

"Non ne ho più bisogno" pensò. "Le mie emozioni non hanno più bisogno di essere nutrite. Non ho più bisogno dell'alcol per dimenticare o per sfuggire. Non ho più da sfuggire nulla. Non ora."

Per la prima volta da quando il cane era morto, sorrise e sentì dentro di sé una quieta e misurata soddisfazione. C'erano ancora molte cose da imparare, ma meno di prima. Stranamente, la vita cominciava a diventare quasi sopportabile. "Indosso la tunica dell'eremita senza una lacrima" pensò.

Dal giradischi proveniva una musica quieta e maestosa.

Fuori i vampiri aspettavano.

 

PARTE TERZA

Giugno 1978

 

15

 

Era fuori a dare la caccia a Cortman. Era diventato un passatempo rilassante, dare la caccia a Cortman; uno dei pochi diversivi rimastigli. In quei giorni in cui poteva allontanarsi e non c'erano lavori urgenti da fare in casa, cercava. Sotto le macchine, tra gli arbusti, nelle cantine, nei caminetti, negli armadi, sotto i letti, nei frigoriferi; in tutti quei luoghi nei quali, verosimilmente, un uomo non troppo corpulento potesse essersi nascosto.

Una volta o l'altra, Ben Cortman poteva essere stato in uno qualsiasi di quei posti. Cambiava nascondiglio continuamente. Neville era sicuro che Cortman sapeva di essere stato scelto come preda. Inoltre intuiva che Cortman apprezzava quel rischio. Se la frase non fosse stata così evidentemente anacronistica, Neville avrebbe detto che Ben Cortman aveva il gusto della vita. A volte pensava che Cortman fosse più felice adesso di quanto lo fosse mai stato prima.

Neville percorse lentamente il Compton Boulevard verso la prossima casa che voleva esplorare. Aveva trascorso una mattinata tranquilla. Cortman, non lo aveva trovato, benché Neville sapesse che si trovava da qualche parte nelle vicinanze. Doveva esserci, perché era sempre il primo ad arrivare alla sua casa, la sera. Gli altri erano quasi sempre degli sconosciuti. Il loro ricambio doveva essere molto rapido, perché invariabilmente rimanevano nei paraggi e Neville li trovava e li uccideva. Ma non Cortman.

Mentre camminava, Neville si chiese di nuovo che cosa avrebbe fatto se avesse scovato Cortman. Vero, il suo piano era sempre stato lo stesso: eliminazione immediata. Ma queste erano soltanto parole. Sapeva che non sarebbe stato così facile. Ah, non che provasse qualcosa per Cortman. Non era nemmeno perché Cortman rappresentasse una parte del passato. Il passato era morto: lo sapeva e lo accettava.

No, non era per nessuno di quei motivi. Probabilmente era perché, decise Neville, non voleva interrompere un'attività ricreativa. Gli altri erano delle creature ottuse, simili a robot. Per lo meno Ben aveva un po' di fantasia. Per qualche motivo, il suo cervello non si era indebolito come quello degli altri. Poteva essere che, come spesso Neville almanaccava, Ben Cortman fosse nato per essere morto. Per essere un non morto, cioè, pensò con un sorriso obliquo sulle labbra piene.

Non pensava più al fatto che Cortman uscisse per cercare di ucciderlo. Era una minaccia trascurabile.

Neville si lasciò cadere sui gradini di un portico con un lento sospiro. Poi, con indolenza, infilò una mano in tasca e tirò fuori la pipa. Pigramente, con il pollice pigiò il tabacco grezzo nel fornello. Dopo pochi istanti anelli di fumo fluttuavano lentamente sulla sua testa nell'aria calda e immobile.

Era un Neville più robusto e più tranquillo, quello che fissava l'ampio campo dall'altra parte del viale. Una vita da eremita, vissuta pacatamente, gli aveva fatto raggiungere i cento chili. Il suo viso era pieno, il suo corpo era robusto e muscoloso sotto la larga camicia che indossava. Aveva anche smesso di radersi da molto tempo. Solo raramente si sfoltiva la barba, bionda e folta, fino a lasciarla lunga cinque o sei centimetri. I capelli, lunghi e spettinati, gli si stavano diradando. Sul viso ben abbronzato gli occhi azzurri erano calmi e impassibili.

Si appoggiò all'indietro, contro il gradino di mattoni, emettendo lente nuvole di fumo. Lontano, oltre quel campo, sapeva che c'era un avvallamento nel terreno dove aveva sepolto Virginia e da dove lei stessa si era dissepolta. Ma saperlo non faceva luccicare i suoi occhi dal dolore. Piuttosto che continuare a soffrire, aveva imparato a rinunciare all'analisi. Il tempo aveva perso la sua estensione pluridimensionale. Per Robert Neville esisteva soltanto il presente; un presente basato sulla sopravvivenza quotidiana, contraddistinto né da una grande felicità, né da una disperazione profonda. "Sto soprattutto vegetando" pensava spesso. Ma era quello che voleva.

Robert Neville rimase seduto a fissare per alcuni minuti la macchia bianca nel campo, prima di capire che si stava muovendo.

Strinse gli occhi e la pelle del viso gli si tese. Un suono rauco gli salì dalla gola, un suono come un incredulo interrogativo. Poi, alzandosi, portò la mano sinistra agli occhi per schermare la luce del sole.

I suoi denti batterono convulsamente sul cannello della pipa.

Una donna.

Non cercò nemmeno di riprendere la pipa quando questa gli cadde dalle labbra. Per un lungo momento trattenne il respiro e rimase sul gradino del portico a osservare.

Chiuse gli occhi, li aprì. Era ancora là. Robert Neville sentì un battito sordo che gli aumentava nel petto, alla vista di quella donna.

Lei non lo aveva visto. Teneva la testa bassa mentre camminava attraverso il campo. Neville poteva scorgerne i capelli rossicci muoversi alla brezza, le braccia dondolare con inerzia lungo i fianchi. Neville deglutì. Dopo tre anni era una visione così incredibile che la sua mente non poteva accettarla. Continuò ad ammiccare e a fissarla mentre rimaneva immobile all'ombra della casa.

Una donna. Viva. Alla luce del giorno.

Ristette, con la bocca semiaperta, a guardare meravigliato la donna. Era giovane, poteva vederlo adesso che si stava avvicinando; probabilmente dai venti ai trent'anni. Indossava un abito bianco, sporco e sgualcito. Era molto abbronzata e aveva i capelli rossi. Nell'immoto silenzio del pomeriggio, Neville credette di udire il fruscio dei suoi passi tra l'erba alta.

"Sono diventato pazzo." Le parole gli vennero alla mente d'improvviso. Si sentì meno scosso da tale eventualità che non dall'idea che la donna fosse reale. Stava infatti preparandosi vagamente a una simile disillusione. Sembrava probabile. L'uomo che moriva di sete, vedeva miraggi di laghi. Perché un uomo che brama una compagnia, non dovrebbe vedere una donna che cammina sotto il sole?

D'improvviso trasalì. No, non era così. Perché, a meno che la sua allucinazione non desse vita a rumori nella misura in cui dava vita alle immagini, adesso Neville sentiva i suoi passi tra l'erba. Sapeva che erano veri. Il movimento dei capelli, delle braccia. La donna guardava ancora per terra. Chi era? Dove stava andando? Dov'era vissuta?

Non capì cosa scaturisse in lui. Fu troppo veloce per analizzarlo, un istinto che eruppe attraverso tutte le barriere della riservatezza che si era eretto col tempo.

Alzò il braccio sinistro.

«Ehi!» gridò. Saltò sul marciapiede. «Ehi, là!»

Un attimo di silenzio, completo e improvviso. La donna alzò la testa e i loro sguardi si incrociarono. "Viva" pensò. "Viva!"

Voleva urlare ancor di più, ma improvvisamente si sentì soffocare. La lingua sembrava di legno, il cervello si rifiutava di funzionare. Viva. Quella parola continuava a ripercuotersi nella sua mente, viva, viva, viva...

Con un rapido movimento la giovane donna si voltò e cominciò a correre impetuosamente attraverso il campo.

Per un attimo Neville rimase là esitante, incerto su cosa fare. Poi gli sembrò che il cuore gli scoppiasse: si lanciò attraverso il marciapiede. I suoi passi risuonarono pesantemente sul selciato.

«Aspetta!» si sentì urlare.

La donna non aspettò. Neville vide le sue gambe bronzee che si alzavano mentre fuggiva attraverso la superficie ineguale del campo. E d'improvviso capì che le parole non l'avrebbero fatta fermare. Pensò a come era rimasto scosso nel vederla. Pensò a come doveva essersi sentita più scossa lei nell'udire un grido improvviso rompere un troppo lungo silenzio e nel vedere un uomo alto e barbuto gesticolare verso di lei!

Corse fino all'altro marciapiede e scese nel campo. Il cuore gli batteva pesantemente. "È viva!" Non riusciva a smettere di pensarvi. Viva. Una donna viva!

La donna non poteva correre veloce quanto lui. Quasi immediatamente Neville prese ad accorciare le distanze tra loro. Lei gettava occhiate dietro di sé con il terrore nello sguardo.

«Non voglio farti del male!» gridò, ma lei continuò a correre.

D'improvviso inciampò e cadde sulle ginocchia. Voltò di nuovo il viso, e Neville notò come fosse distorto dalla paura.

«Non voglio farti del male!» gridò di nuovo.

Con uno scatto disperato la donna si rimise in piedi e riprese a correre.

Non c'era alcun rumore eccetto quello delle scarpe della donna e degli stivali di Neville che frusciavano in mezzo all'erba fitta. Cominciò a saltare sull'erba per evitare che questa gli intralciasse la corsa e guadagnò ancor più terreno. La gonna di lei, invece, nell'attrito con l'erba, le faceva perdere velocità.

«Ferma!» le gridò di nuovo, ma più per istinto che per la speranza di farla fermare.

Non si fermò. Corse ancor più velocemente: digrignando i denti, Neville aumentò la sua velocità. Correva in linea retta mentre la ragazza attraversava il campo, con i rossi capelli che le si gonfiavano sulle spalle.

Adesso le era così vicino che poteva sentire il suo respiro forzato. Non gli andava l'idea di spaventarla, ma non si poteva fermare adesso. Tutto il resto del mondo sembrava essere scomparso dalla sua vista, eccetto lei. Doveva prenderla.

Le sue gambe, lunghe e forti, spingevano con forza, i suoi stivali battevano sul terreno.

Un altro rettilineo. I due corsero, affannati. Lei gli gettò di nuovo un'occhiata per vedere quanto fosse vicino. Neville non poteva rendersi conto di quanto fosse spaventevole il proprio aspetto: un metro e novanta, un uomo gigantesco e barbuto con un aspetto deciso.

In quel momento allungò una mano e l'afferrò per la spalla destra.

Con un grido soffocato la giovane donna si divincolò e barcollò di lato. Perso l'equilibrio, cadde su di un fianco sul terreno roccioso. Neville balzò in avanti per aiutarla. La donna si ritrasse e cercò di rialzarsi, ma scivolò e cadde di nuovo, questa volta sulla schiena. La gonna le si sollevò sopra le ginocchia. Cercò di rimettersi in piedi con un lamento ansante, con il terrore negli occhi scuri.

«Qui» ansimò lui, porgendole una mano.

Lei la scostò con violenza, con una lieve esclamazione, e tentò di risollevarsi. Neville l'afferrò per un braccio, ma con la mano libera lei lo colpì al volto graffiandogli la fronte e la tempia destra con le unghie spezzate. Sbuffando di rabbia, Neville ritrasse la mano e lei ne approfittò per voltarsi di scatto e riprendere a correre.

Neville, con un balzo, l'afferrò per le spalle.

«Ma perché hai paura di...»

Non riuscì a finire. Lei gli graffiò la bocca. Poi ci fu soltanto l'ansito della lotta, lo strusciare dei piedi sul terreno, il frusciare dell'erba calpestata.

«Vuoi finirla?» le gridò, ma lei continuò a battersi.

La donna arretrò di scatto e le dita contratte di lui le lacerarono l'abito. Lasciò la presa e la stoffa le ricadde fino alla vita. Neville scorse la sua spalla abbronzata e il bianco del reggiseno.

Lei fece ancora per graffiarlo, e lui le strinse i polsi in una stretta ferrea. Con il piede destro, la donna gli tirò allora un calcio da intormentirgli la gamba.

«Maledizione!»

Con un ringhio rabbioso la colpì al viso. Lei indietreggiò barcollando, poi lo guardò stordita. Di colpo cominciò a piangere disperatamente. Cadde in ginocchio di fronte a lui, coprendosi la testa con le braccia come per proteggersi da altri colpi.

Neville rimase a guardarla ansante, a guardare quella forma tremante. Sbatté le palpebre, poi trasse un profondo respiro.

«Alzati» le disse. «Non ti farò del male.»

Lei non sollevò la testa. Neville continuò a guardarla sconcertato. Non sapeva che dire.

«Ho detto che non ti farò del male» le ripeté.

La donna guardò in su. Ma il viso di Neville sembrò spaventarla ancora, perché si ritrasse di nuovo, rannicchiandosi mentre lo guardava con terrore.

«Ma di che hai paura?» le domandò.

Non si rendeva conto che la sua voce era priva di calore, era la voce aspra e secca di un uomo che ha perso ogni contatto con l'umanità.

Fece un passo verso di lei, che si ritrasse ancora con un singulto di spavento. Le tese la mano.

«Su» le disse. «Alzati.»

Si alzò lentamente, ma senza il suo aiuto. Notando all'improvviso il proprio seno esposto, rialzò la stoffa strappata dell'abito.

Rimasero a guardarsi l'un l'altro affannosamente. E, ora, passata la prima emozione, Neville non sapeva che dire. Aveva sognato quel momento per anni. Ma i suoi sogni non erano mai stati così.

«Come... come ti chiami?» le domandò.

Lei non rispose. Il suo sguardo era ancora fisso sul viso di lui, e le labbra continuavano a tremarle.

«Allora?» le chiese a voce alta; lei trasalì.

«R... Ruth.» La voce le mancò.

Robert Neville fu percorso da un brivido. La voce della donna sembrò liberare ogni cosa dentro di lui. Le domande persero ogni importanza. Sentì il cuore battergli precipitosamente. Ebbe quasi l'impressione di mettersi a piangere.

Protese la mano, quasi inconsciamente. La spalla di lei ebbe un tremito sotto le sue dita.

«Ruth» disse con voce piatta e smorta.

Deglutì nervosamente mentre la fissava.

«Ruth» ripeté.

Entrambi, l'uomo e la donna, rimasero a fissarsi l'un l'altra nel caldo e grande campo.

 

16

 

La donna giaceva immobile nel suo letto, addormentata. Erano passate le quattro del pomeriggio. Neville era scivolato almeno venti volte nella sua camera per guardarla e vedere se fosse sveglia. Adesso era seduto in cucina a bere un caffè, preoccupato.

"E se lei fosse infetta?" si domandò.

Il dubbio gli era venuto alcune ore prima, mentre Ruth dormiva. E adesso non riusciva a liberarsi di quella paura. Per quanto ne ragionasse tra sé, non serviva a niente. D'accordo, era abbronzata, camminava in pieno giorno. Anche il cane usciva in pieno giorno.

Neville tamburellò nervosamente sul tavolo.

La semplicità era scomparsa: il sogno si era dissolto in un'inquietante complessità. Non c'erano stati meravigliosi abbracci, non erano state dette magiche parole. A parte il nome, non era riuscito a sapere altro da lei. Portarla fino alla villetta era stata una battaglia. E anche peggio costringerla a entrare. Aveva pianto e l'aveva supplicato di non ucciderla. Qualunque cosa lui le dicesse, aveva continuato a piangere e a implorare. Neville si era immaginato qualcosa nello stile di una produzione hollywoodiana: sguardi pieni di stelle, ingresso nella villetta strettamente abbracciati, dissolvenza. Invece era stato costretto a tirarla e a blandirla, a discutere e a sgridarla mentre lei resisteva. L'ingresso era stato assai poco romantico. Aveva dovuto trascinarla dentro.

Una volta dentro la villetta, lei non era apparsa meno spaventata. Aveva cercato di confortarla, ma lei non aveva fatto che rincantucciarsi in un angolo, proprio come il cane. Non aveva voluto mangiare o bere nulla di quel che le aveva dato. Infine, era stato costretto a chiuderla nella stanza da letto. Ora stava dormendo.

Sospirò stancamente e giocherellò con un dito intorno al manico della tazza.

"Tutti questi anni" pensò "a sognare una compagna. Ora ne incontro una e la prima cosa che faccio è di non fidarmi di lei, trattandola con crudeltà e impazienza."

Eppure, in realtà non avrebbe potuto fare altro. Aveva accettato per troppo tempo l'ipotesi di essere l'unica persona normale sopravvissuta. Non aveva importanza che lei sembrasse normale. Ne aveva veduti troppi di loro, in pieno coma diurno, con un aspetto altrettanto sano. Però sani non erano, e lui lo sapeva. Il semplice fatto che stesse camminando in pieno sole non era sufficiente per far pendere la bilancia dal lato della fiducia totale. Per troppo tempo aveva dubitato. Il concetto che aveva sull'esistenza di altri superstiti era diventato assoluto. Gli era quasi impossibile credere che ci fossero altri come lui. E, dopo che l'effetto della sorpresa si era attenuato, il dogma dei suoi lunghi anni solitari aveva preso il sopravvento.

Con un profondo sospiro si alzò e tornò in camera da letto. Lei stava ancora nella stessa posizione. Forse, rifletté, è tornata in coma.

Rimase accanto al letto a fissarla. Ruth. C'erano tante cose di lei che voleva sapere, eppure aveva quasi paura di saperle. Perché se lei era come gli altri, gli restava soltanto una via. Ed è meglio non sapere nulla delle persone che devi uccidere.

Strinse i pugni, gli occhi azzurri fissi su di lei. E se si fosse trattato di una bizzarria del caso? Se lei fosse uscita dal coma per un poco e avesse vagato? Sembrava possibile. Eppure, per quel che ne sapeva, la luce del giorno era l'unica cosa che i germi non potevano sopportare. Perché questo non bastava a convincerlo che lei fosse normale?

Bene, c'era un unico modo per assicurarsene.

Si chinò e le posò una mano sulla spalla.

«Svegliati» le disse.

Lei non si mosse. Neville serrò le labbra e strinse le dita su quella morbida spalla.

Poi notò la sottile catenina d'oro intorno al collo. Frugando con le dita ruvide, la sfilò dalla scollatura.

Quando lei aprì gli occhi e si ritrasse sul cuscino, Neville stava osservando la minuscola croce d'oro. Lei non è in coma: fu questo il suo unico pensiero.

«Che f... fate?» chiese debolmente.

Era difficile non crederle quando parlava. Il suono della voce umana gli appariva tanto strano da avere su di lui un potere che non aveva mai avuto.

«Sto... Niente» disse.

Indietreggiò con aria goffa e si appoggiò alla parete, fissandola per un poco in silenzio. Poi le domandò: «Da dove vieni?»

Lei non si mosse, osservandolo con sguardo opaco.

«Ti ho chiesto da dove vieni» insisté.

Ancora lei non disse nulla. Neville si scostò dal muro con un'espressione decisa sul volto.

«Ing... Inglewood» si affrettò a dire lei.

La guardò freddamente per un momento, poi si riappoggiò alla parete.

«Capito» disse. «Vivevi... vivevi sola?»

«Ero sposata.»

«Dov'è tuo marito?»

Deglutì. «È morto.»

«Da quanto tempo?»

«L'altra settimana.»

«E cosa hai fatto dopo la sua morte?»

«Scappata.» Si morse il labbro. «Sono scappata.»

«Vuoi dire che hai vagato per tutto questo tempo?»

«S... sì.»

La guardò senza dire una parola. Poi si voltò bruscamente e con passo pesante si recò in cucina. Aprendo lo sportello di un armadietto, ne estrasse una manciata di spicchi d'aglio. Li pose su un piatto, li tagliò a pezzi e li ridusse in poltiglia. L'effluvio penetrante gli riempì le narici.

Quando tornò in camera, lei stava sollevata su un gomito. Senza esitare le cacciò il piatto sotto il naso.

La donna scostò la testa con un debole gemito.

«Ma che fate?» disse e tossì.

«Perché ti giri?»

«Per favore...»

«Perché ti giri?»

«PuzzaLa voce le si ruppe in un singhiozzo. «No! Mi fate star male!»

Le spinse il piatto ancor più vicino. Lei si ritrasse con un conato, raccogliendosi contro il muro, le gambe contro il petto. «Basta! Per favore!» supplicò.

Tolse il piatto e guardò il suo corpo contrarsi per gli spasmi dello stomaco.

«Sei una di loro» le disse freddamente, con cattiveria.

Lei si alzò di scatto e corse verso il bagno. La porta sbatté dietro di lei e Neville la sentì vomitare.

Le labbra serrate, depose il piatto sul comodino. Deglutì nervosamente.

Infetta. Il segno era chiaro. Da più di un anno aveva imparato che l'aglio era un allergene per ogni sistema infettato dal bacillo vampiris. Quando l'organismo veniva esposto all'aglio, i tessuti stimolati sensibilizzavano le cellule, causando una reazione anormale a ogni ulteriore contatto con l'aglio. Ecco perché iniettarlo loro nelle vene era servito a poco. Dovevano essere esposti all'odore.

Si lasciò cadere sul letto. La donna aveva reagito nel modo sbagliato.

Dopo un momento Robert Neville si accigliò. Se era vero quello che aveva detto, era rimasta a girovagare per una settimana. Sarebbe stata logicamente esausta e debole, e in tali condizioni la puzza di tutto quell'aglio l'avrebbe fatta vomitare.

Batté i pugni sul letto. Ancora non lo sapeva, quindi, non con sicurezza. E, obiettivamente, sapeva di non avere il diritto di deciderlo su di una base insufficiente. Era qualcosa che aveva imparato a proprie spese, qualcosa che sapeva e in cui credeva in modo assoluto.

Era ancora seduto quando la donna aprì la porta del bagno e uscì. Rimase nel corridoio per un momento a guardare Neville, poi si diresse verso il soggiorno. Lui si alzò e la seguì. Quando arrivò nel soggiorno, lei era seduta sul divano.

«Siete soddisfatto?» gli chiese.

«Non ci pensare» disse. «Sei tu sotto esame, non io.»

Lo guardò con ira, come se avesse l'intenzione di dire qualcosa. Poi si accasciò, scuotendo la testa. Per un attimo Neville provò per lei un moto di comprensione. Sembrava così indifesa, con le mani esili posate in grembo. Sembrava non preoccuparsi più del suo vestito strappato. Neville osservò il lieve turgore del seno. Aveva un corpo molto sottile, quasi privo di rotondità. In nulla simile alla donna che era abituato a sognare. "Non ci pensare" si disse "non ha più importanza."

Neville sedette sulla poltrona e guardò la donna. Lei non gli restituì lo sguardo.

«Stammi a sentire» le disse. «Ho ogni motivo di sospettare che tu sia infetta. Soprattutto ora che hai reagito in quel modo all'aglio.»

Non gli rispose.

«Non hai niente da dire?» le domandò.

Lei alzò lo sguardo.

«Voi pensate che io sia una di loro» affermò.

«Penso che potresti esserlo.»

«E questa, allora?» domandò, sollevando la croce.

«Non significa niente» ribatté Neville.

«Sono sveglia» disse. «Non in coma.»

Neville non disse niente: era qualcosa contro cui non aveva argomenti, anche se non cancellava i dubbi.

«Sono stato a Inglewood molte volte» disse infine. «Perché non hai mai sentito la macchina?»

«Inglewood è grande» rispose lei.

La guardò con attenzione, tamburellando con le dita sul bracciolo della poltrona.

«Vorrei... poterti credere» disse poi.

«Davvero?» chiese lei. Fu presa da un'altra contrazione di stomaco e si chinò boccheggiando, e strinse i denti. Robert Neville rimase seduto chiedendosi perché non provasse un po' più di pietà per lei. Era difficile ritrovare l'emotività, una volta che questa era morta, vero? L'aveva esaurita e ora si sentiva svuotato, privo di sensazioni.

Un momento dopo, lei alzò gli occhi. Lo sguardo era severo.

«Ho sempre avuto lo stomaco debole» dichiarò. «Ho visto uccidere mio marito la settimana scorsa. Fatto a pezzi. Proprio di fronte ai miei occhi. Con l'epidemia ho perduto due bambini. E durante l'ultima settimana ho vagato un po' dappertutto. Nascondendomi di notte, mangiando soltanto pochi bocconi. Piena di paura, incapace di dormire più di un paio d'ore per volta. Poi sento qualcuno che grida verso di me, che mi dà la caccia in un campo, che mi colpisce, che mi trascina in questa casa. Poi, quando sto male perché mi sbatte sotto il naso un nauseante piatto di aglio, viene a dirmi che sono infetta!»

Si tormentò le dita.

«Cosa vi aspettavate?» esclamò con rabbia.

Si lasciò andare contro lo schienale del divano e chiuse gli occhi. Le sue mani graffiarono nervosamente la gonna. Per un attimo tentò di rimettere a posto il lembo strappato, ma questo ricadde di nuovo: ebbe un singulto di rabbia.

Neville si chinò in avanti. Ora stava cominciando a sentirsi colpevole, nonostante i sospetti e i dubbi. Non poteva farci niente. Aveva dimenticato i singhiozzi delle donne. Sollevò lentamente una mano e prese a tormentarsi la barba, confuso, mentre continuava a guardarla.

«Vorresti...» cominciò. Deglutì. «Vorresti lasciarmi prendere un campione del tuo sangue?» le domandò. «Potrei...»

La donna si alzò di scatto, e si avviò barcollando alla porta.

Neville si alzò in fretta.

«Che vuoi fare?» le domandò.

Non gli rispose. Le sue mani annasparono maldestramente sulla serratura.

«Non puoi uscire» le disse sorpreso. «La strada tra non molto sarà piena di loro.»

«Non voglio stare qui» singhiozzò lei. «Che differenza fa se mi uccidono?»

L'afferrò per un braccio. Lei cercò di liberarsi.

«Lasciami stare» disse piangendo. «Non ho chiesto io di venire qui. Mi ci hai trascinato. Perché non mi lasci in pace?»

Le rimase vicino imbarazzato, senza sapere che dire.

«Non puoi uscire» le ripeté.

La ricondusse al divano. Poi andò a prenderle un po' di whisky al bar. "Non ci pensare se è infetta o no" si disse "non ci pensare."

Le porse il bicchiere. Lei scosse la testa.

«Bevi» le disse. «Ti calmerà.»

Sollevò lo sguardo, irata. «In modo che tu possa sbattermi altro aglio in faccia?»

Neville scosse la testa.

«Bevi adesso» insisté.

Dopo qualche istante lei prese il bicchiere e bevve un sorso di whisky. La fece tossire. Depose il bicchiere sul bracciolo del divano e un profondo sospiro le scosse il corpo.

«Perché vuoi che rimanga?» chiese con aria infelice.

Neville la guardò senza una risposta precisa nella mente. Poi disse: «Anche se sei infetta non posso lasciarti uscire. Non sai che cosa ti farebbero.»

Lei chiuse gli occhi. «Non mi importa» rispose.

 

17

 

«Non capisco» le disse mentre cenavano. «Sono ormai passati quasi tre anni, eppure ce ne sono ancora vivi. Le riserve di cibo sono esaurite. Per quanto ne so, rimangono sempre in coma durante il giorno.» Scosse la testa. «Eppure non sono morti. Tre anni e non sono morti. Cos'è che li fa vivere?»

Ruth indossava l'accappatoio di lui. Verso le cinque si era calmata, aveva fatto un bagno, si era cambiata. Il suo corpo snello non aveva più forma tra le pieghe del voluminoso indumento di spugna. Si era impadronita del pettine di lui e si era acconciata i capelli all'indietro, a coda di cavallo, legandoli con un pezzo di spago.

Ruth passò il dito sull'orlo della sua tazza.

«Li scorgevamo a volte» disse. «Però avevamo paura di avvicinarci a loro. Non pensavamo affatto di toccarli.»

«Non sapevate che ritornano dopo essere morti?»

Lei scosse la testa. «No.»

«Non vi siete mai chiesti chi fossero coloro che attaccavano di notte la vostra casa?»

«Non ci ha mai sfiorati l'idea che fossero...» Scosse lentamente la testa. «È difficile credere a cose del genere.»

«Già» commentò lui.

Le gettò un'occhiata mentre stavano seduti a mangiare in silenzio. Era difficile anche credere che là ci fosse una donna normale. Difficile credere che, dopo tutti quegli anni, fosse giunta una compagna. Non si trattava solamente di dubitare di lei. C'era da dubitare che qualcosa di tanto memorabile potesse accadere in un mondo tanto perduto.

«Parlami ancora di loro» disse Ruth.

Neville si alzò e tolse la caffettiera dal fornello. Le versò altro caffè nella tazza, poi nella sua, poi rimise la caffettiera sul fornello e tornò a sedere.

«Come ti senti adesso?» le domandò.

«Mi sento meglio, grazie.»

Neville assentì e mise lo zucchero nella propria tazza. Nel muoversi avvertì lo sguardo della donna su di sé. Inspirò profondamente, chiedendosi perché il ghiaccio dentro di lui non si sciogliesse. Per un poco aveva creduto di potersi fidare di lei. Ora non ne era più sicuro.

«Non ti fidi ancora di me» osservò lei, quasi gli leggesse nella mente. Sollevò lo sguardo di scatto, poi alzò le spalle.

«Non è... questo» mormorò.

«Certo che lo è» disse lei con voce calma. Sospirò. «Va bene, se vuoi esaminarmi il sangue, esaminalo.»

La guardò con sospetto, con una domanda nella mente. È un trucco? Nascose il movimento del suo pomo d'Adamo nel mandar giù il caffè. Era stupido, pensò, essere tanto sospettoso.

Depose la tazza «Bene» disse. «Molto bene.»

La osservò mentre lei fissava lo sguardo nel caffè.

«Se sei infetta» le disse «farò tutto il possibile per curarti.» I loro sguardi si incrociarono.

«E se non puoi?» gli domandò lei.

Un momento di silenzio.

«Aspettiamo e vediamo» le rispose poi.

Bevvero entrambi il caffè. Poi le chiese: «Lo facciamo adesso?»

«Per favore» gli disse «domattina. Non... mi sento ancora bene.»

«D'accordo» disse, annuendo. «Domattina.»

Finirono il pasto in silenzio. Neville provò soltanto una parziale soddisfazione per il fatto che lei gli permettesse di esaminarle il sangue. Aveva paura di scoprire che fosse davvero infetta. Nel frattempo avrebbe dovuto passare una sera e una notte in sua compagnia, magari cominciando a conoscerla e a essere attratto da lei. Quando al mattino avrebbe dovuto...

Più tardi, nel soggiorno, seduti davanti alla stampa, bevvero del porto e ascoltarono la Quarta Sinfonia di Schubert.

«Non l'avrei mai creduto» disse lei, rianimandosi. «Non avrei mai pensato di ascoltare di nuovo la musica. Di bere del vino.»

Si guardò intorno.

«Hai fatto davvero uno splendido lavoro» osservò.

«E la tua casa?» le domandò.

«Non era niente di simile» rispose. «Non avevamo una...»

«Come avevate protetto la vostra casa?» la interruppe.

«Oh...» rifletté un momento. «L'avevamo sbarrata con delle assi, naturalmente. E usavamo le croci.»

«Non sempre funzionano» le disse quieto, dopo averla osservata per un momento.

Lei sembrò sconcertata. «Non funzionano?»

«Perché un ebreo dovrebbe temere la croce?» le spiegò. «Perché un vampiro che è stato ebreo dovrebbe temerla? Molta gente aveva paura di diventare un vampiro. Molti di loro soffrono di cecità isterica di fronte agli specchi. Ma per quanto riguarda la croce... be', né un ebreo, né un indù, né un maomettano, e nemmeno un ateo, a questo riguardo, avrebbero timore della croce.»

Lei lo guardò in un modo inespressivo, tenendo il bicchiere tra le dita.

«Ecco perché la croce non sempre funziona» ripeté.

«Non mi hai lasciato finire» gli disse. «Usavamo anche l'aglio.»

«Pensavo che ti facesse stare male.»

«Stavo già male. Di solito pesavo cinquantacinque chili. Ora ne peso quarantacinque.»

Neville annuì. Ma mentre si recava in cucina a prendere un'altra bottiglia di vino, rifletté: avrebbe dovuto esservisi abituata, ormai. Dopo tre anni.

Poi di nuovo: avrebbe potuto anche non abituarvisi. A che serviva ora dubitare di lei? Gli avrebbe lasciato esaminare il sangue. Che altro avrebbe potuto fare?

"Sono io" pensò.

"Sono stato solo troppo a lungo. Non crederei a nulla senza vederlo in un microscopio. L'ereditarietà trionfa di nuovo. Sono il figlio di mio padre, accidenti alle sue ossa ammuffite."

Ritto nel buio della cucina, Robert Neville osservò Ruth, rimasta nel soggiorno, mentre con l'unghia asportava la stagnola dal collo della bottiglia.

Lo sguardo gli corse sull'accappatoio, fermandosi un momento sulla lieve prominenza del seno, scendendo poi ai polpacci e alle caviglie abbronzate, risalendo alle ginocchia lisce. Aveva il corpo di una ragazza. Di certo non sembrava che avesse fatto due figli.

L'aspetto più inconsueto, in tutta quella faccenda, pensò, era che non provava per lei alcun desiderio fisico.

Se lei fosse arrivata due anni prima, magari anche solo poco più tardi, avrebbe potuto violentarla. C'erano stati in quei giorni alcuni momenti terribili, momenti in cui aveva preso in considerazione anche la più tremenda delle soluzioni al suo bisogno, l'aveva accarezzata fin quasi a impazzirne.

Ma poi aveva cominciato gli esperimenti. Il fumo era stato ridotto, il bere aveva perduto la sua natura ossessiva. Di proposito e con sorprendente successo si era immerso nelle ricerche.

I suoi impulsi sessuali erano diminuiti, praticamente scomparsi. La salvezza del monaco, pensò. Gli impulsi dovevano presto o tardi svanire, altrimenti nessun uomo normale avrebbe potuto dedicarsi a un'esistenza che escludesse il sesso.

Ora, per fortuna, non provava quasi nulla: forse un fremito appena avvertibile molto al di sotto delle stratificazioni rocciose dell'astinenza. Si accontentava di lasciarlo lì. In particolar modo, finché non avesse avuto la certezza che Ruth era la compagna che aveva aspettato. Oppure la certezza che potesse permetterle di vivere più di un giorno. Curarla?

La possibilità di una cura era alquanto remota.

Rientrò nel soggiorno con la bottiglia stappata. Mentre le versava ancora del vino, Ruth gli sorrise.

«Stavo ammirando quella stampa» gli disse. «Si è portati quasi a credere di trovarsi tra i boschi.»

Neville mugolò.

«Ci dev'essere voluto molto lavoro per dare alla casa quest'aspetto» osservò lei.

«Dovresti saperlo» ribatté Neville. «Hai fatto la stessa esperienza.»

«Non avevamo niente di simile» affermò lei. «La nostra casa era piccola. La nostra riserva di cibo era la metà della tua.»

«Dovete essere rimasti a corto di cibo» le chiese, osservandola attentamente.

«Di surgelati» rispose lei. «Vivevamo con le scatolette.»

Lui annuì. Logico, dovette ammettere con se stesso. Però ancora non gli piaceva. Non era altro che un'intuizione, lo sapeva, però non gli piaceva.

«E per l'acqua?» chiese allora.

Rimase ad osservarlo silenziosa per un momento.

«Non credi una parola di quanto ho detto, vero?» gli domandò lei.

«Non è questo» ribatté. «Sono soltanto curioso di sapere come avete vissuto.»

«La tua voce non riesce a nasconderlo» riprese lei. «Sei stato troppo a lungo solo. Hai perduto la capacità di fingere.»

Brontolò, preso dalla disagevole sensazione che la donna si stesse prendendo gioco di lui. È ridicolo, si disse. È solamente una donna. E ha probabilmente ragione. Lui era davvero, con ogni probabilità, un burbero e sgraziato eremita. Che importanza aveva?

«Parlami di tuo marito» le chiese d'un tratto.

Qualcosa guizzò sul suo volto, l'ombra di un ricordo. Portò alle labbra il bicchiere di vino scuro.

«Non ora» rispose. «Ti prego.»

Si lasciò andare contro la spalliera del divano, incapace di analizzare l'insoddisfazione informe che provava. Tutto quel che lei faceva o diceva poteva essere il risultato di quello che aveva subito. Ma poteva essere anche una bugia.

Perché avrebbe dovuto mentire? si chiese. Al mattino le avrebbe esaminato il sangue. A che le sarebbe servito fingere quella notte quando, entro poche ore, lui avrebbe saputo la verità?

«Sai una cosa?» riprese lui, sforzandosi di essere più cordiale. «Stavo pensando. Se tre persone possono sopravvivere all'epidemia, perché non altre ancora?»

«Pensi che sia possibile?» gli domandò lei.

«Perché no? Devono essercene degli altri che sono rimasti immuni per un motivo o per l'altro.»

«Parlami ancora dei germi» riprese lei.

Esitò per un attimo, poi depose il proprio bicchiere di porto. Che sarebbe accaduto se le avesse detto tutto? Che sarebbe accaduto se lei fosse fuggita per tornare dopo morta con tutta la conoscenza che adesso era soltanto sua?

«C'è una quantità spaventosa di particolari» disse.

«Prima stavi dicendo qualcosa circa la croce» riprese lei. «Come fai a sapere che è vero?»

«Ti ricordi quel che ho detto di Ben Cortman?» le chiese, lieto di riprendere un argomento che lei già conosceva piuttosto che fornirle delle informazioni nuove.

«Vuoi dire quell'uomo che...»

Neville annuì «Sì. Vieni» le disse, alzandosi. «Te lo mostrerò.»

Mentre si trovava dietro di lei che guardava fuori dallo spioncino, Neville aspirò l'odore dei suoi capelli e della sua pelle. Questo lo fece ritrarre di un poco. "Che strano" pensò. "Non mi piace l'odore. Come Gulliver al ritorno dal paese dei cavalli pensanti, trovo sgradevole l'odore umano."

«È quello vicino al lampione» disse.

Lei fece un lieve mugolio di assenso. Poi osservò «Ce ne sono pochi. Dove sono gli altri?»

«Ne ho ucciso la maggior parte» rispose «ma ne arriva sempre qualcuno nuovo.»

«Come mai quel lampione è acceso?» domandò. «Credevo che avessero distrutto gli impianti elettrici.»

«L'ho collegato al mio generatore» le rispose «così posso osservarli.»

«Non rompono la lampada?»

«Ho messo sulla lampada un globo molto resistente.»

«Ma non si arrampicano per cercare di romperlo?»

«Ho messo aglio su tutto il palo.»

«Hai proprio pensato a tutto» disse lei scuotendo la testa.

Arretrando, rimase a osservarla per un momento. Come può guardarli con tanta calma, si chiese, pormi delle domande, fare dei commenti, quando soltanto una settimana fa ha visto i loro simili fare a pezzi suo marito? Ancora dubbi, pensò. Non sarebbero mai finiti?

Sapeva che non sarebbero finiti finché non avesse saputo la verità su di lei.

A quel punto lei si scostò dalla finestra.

«Vuoi scusarmi un momento?» gli chiese.

La osservò mentre si recava nel bagno e la udì chiudersi la porta alle spalle. Poi tornò al divano dopo aver chiuso lo sportello dello spioncino. Un sorriso distorto gli errava sulle labbra. Scrutò la profondità del liquido scuro nel bicchiere e si tormentò sovrappensiero la barba.

«Vuoi scusarmi un momento?»

Per qualche motivo, quelle parole avevano un suono grottesco, buffo, un residuo di un'età perduta. Regole di buona creanza per vampiri fornite da qualche tomba.

Non sorrideva più.

E adesso? Che cosa gli riserbava il futuro? Tra una settimana Ruth sarebbe stata ancora con lui, oppure accartocciata nel rogo incessante?

Sapeva che, se fosse stata infetta, avrebbe cercato di curarla sia che la cura funzionasse o meno. Ma se lei non avesse avuto bacilli? In un certo modo quella era una possibilità ancora più inquietante. Nel primo caso si sarebbe comportato semplicemente come prima, senza infrangere né il suo programma né le sue abitudini. Ma se fosse rimasta con lui, se avessero stabilito una relazione, diventando magari marito e moglie, avendo dei figli...

Sì, questo era più terrificante.

Si rese conto all'improvviso di essere ridiventato uno scapolo burbero e incallito. Non pensava più a sua moglie, alla bambina, alla vita passata. Il presente gli bastava. E aveva paura che gli venisse richiesto nuovamente di fare dei sacrifici e di accettare delle responsabilità. Aveva paura di riaprire il suo cuore, di rimuovere le catene che vi aveva forgiato intorno per imprigionare l'emozione. Aveva paura di tornare ad amare.

Quando Ruth uscì dal bagno, Neville stava ancora seduto, a pensare. Il giradischi, trascurato, emetteva soltanto un lieve rumore graffiante.

Ruth tolse il disco dal piatto e lo voltò. Ebbe inizio il terzo movimento della sinfonia.

«Allora, che mi dicevi di Cortman?» domandò lei, tornando a sedersi.

La guardò assente. «Cortman?»

«Stavi per dirmi qualcosa circa lui e la croce.»

«Ah. Dunque, una notte l'ho portato qui dentro e gli ho mostrato la croce.»

«Che accadde?»

"Devo ucciderla adesso? Devo ucciderla e bruciarla, senza nemmeno farle l'esame?"

Deglutì nervosamente. Simili pensieri erano un'orribile concessione al mondo che lui aveva accettato; un mondo dove l'assassinio era più facile della speranza.

Però, non era ancora arrivato a tanto, pensò. "Sono un uomo, non uno sterminatore."

«Che c'è?» gli chiese lei, nervosa.

«Come?»

«Mi stai fissando.»

«Scusa» le disse freddo. «Sta... stavo pensando.»

Lei non aggiunse altro. Sorseggiò il vino e Neville vide la mano tremarle nel reggere il bicchiere. Respinse ogni interrogativo: non voleva che comprendesse quel che lui provava.

«Quando gli mostrai la croce» disse «mi rise in faccia.»

Ruth assentì.

«Ma quando gli misi davanti agli occhi la torah, provocai la reazione che volevo.»

«La che?»

«La torah. Le tavole della legge, mi sembra.»

«E questa... provocò una reazione?»

«Sì. L'avevo legato, ma quando vide la torah, si liberò e mi assalì.»

«Che accadde?» Sembrava che lei avesse perso di nuovo ogni senso di paura.

«Mi colpì alla testa con qualcosa. Non ricordo cosa. Ero quasi svenuto. Però, adoperando la torah, lo feci arretrare fino alla porta e mi liberai di lui.»

«Ah.»

«Come vedi, la croce non ha il potere che le attribuisce la leggenda. La mia teoria è che, avendo la leggenda avuto origine in Europa, continente prevalentemente cattolico, la croce sia diventata naturalmente il simbolo della difesa dalla potenza delle tenebre.»

«Non potevi usare la pistola contro Cortman?» gli chiese.

«Come fai a sapere che avevo una pistola?»

«Io... l'ho pensato» rispose. «Noi avevamo delle pistole.»

«Quindi dovresti sapere che le pallottole non hanno effetto sui vampiri.»

«Non... non potevamo esserne sicuri» rispose lei, poi riprese in fretta: «Sai forse perché? Perché le pallottole non hanno effetto su di loro?»

Scosse la testa. «Non lo so» rispose.

Rimasero in silenzio ad ascoltare la musica.

Lo sapeva; però, preso ancora dal dubbio, non voleva dirglielo.

Attraverso esperimenti su vampiri morti, aveva scoperto che il bacillo creava una potente sostanza corporea collosa, che richiudeva le ferite delle pallottole appena prodotte. Le pallottole venivano circoscritte quasi immediatamente e, poiché l'organismo era attivato dai germi, una pallottola non poteva danneggiarlo. L'organismo poteva infatti contenere un numero quasi indefinito di pallottole, dal momento che la sostanza collosa preveniva la penetrazione per più di qualche millimetro. Sparare ai vampiri era come gettare pietrisco nel catrame.

Mentre stava seduto a osservarla, Ruth si accomodò le pieghe dell'accappatoio intorno alle gambe e per un attimo Neville scorse una coscia abbronzata. Invece di esserne attratto, provò irritazione. Era un tipico gesto femminile, pensò, un movimento artificioso.

Via via che i minuti passavano, poteva quasi sentire che si allontanava da lei. In un certo senso quasi si rammaricava di averla trovata. Attraverso gli anni aveva raggiunto un certo grado di pace. Aveva accettato la solitudine, senza trovarla troppo spiacevole. E ora... fine di tutto.

Per riempire il senso di vuoto del momento, prese la pipa e la borsa del tabacco; riempì il fornello della pipa e l'accese. Per un attimo si chiese se avesse dovuto domandarle se la disturbava. Non glielo chiese.

La musica ebbe fine. Ruth si alzò e Neville rimase a osservarla mentre esaminava i dischi. Sembrava una ragazzina, tanto era snella. "Chi è?" si chiese. "Chi è in realtà?" «Posso sentire questo?» chiese lei, sollevando un album.

Non lo guardò nemmeno. «Se vuoi» rispose.

Lei tornò a sedere mentre aveva inizio il Secondo Concerto per piano di Rachmaninoff. "Non ha un gusto molto raffinato" pensò, guardandola senza espressione.

«Parlarmi di te» disse lei.

Un'altra tipica domanda femminile, pensò. Poi si rimproverò per essere tanto critico. Che senso aveva continuare a irritarsi dubitando di lei?

«Niente da dire» rispose.

Lei stava di nuovo sorridendo. Stava ridendo di lui?

«Mi hai spaventata a morte questo pomeriggio» disse lei. «Tu e la tua barba irsuta. E quegli occhi da pazzo.»

Neville espirò del fumo. Occhi da pazzo? Era ridicolo. Cosa stava cercando di fare, quella? Abbattere la sua riservatezza facendo la graziosa?

«Come sei, sotto tutto quel pelo?» gli domandò.

Cercò di sorriderle, ma senza riuscirvi.

«Niente di speciale» rispose. «Una faccia qualunque.»

«Quanti anni hai, Robert?»

Deglutì nervosamente. Era la prima volta che pronunciava il suo nome. Udire il suo nome pronunciato da una donna dopo tanto tempo, gli dava una strana e inquieta sensazione. Non chiamarmi così, stava quasi per dire. Non voleva ridurre la distanza che li separava. Se fosse stata infetta e non avesse potuto curarla, voleva potersi distaccare da una persona estranea.

Lei distolse la testa.

«Non hai bisogno di parlarmi, se non ne hai voglia» disse in tono tranquillo. «Non ti darò noia. Me ne andrò domani.»

Sentì contrarsi i muscoli dello stomaco.

«Ma...» disse.

«Non voglio rovinarti la vita» proseguì lei. «Non devi sentirti affatto in obbligo verso di me soltanto perché... siamo i soli rimasti.»

Il suo sguardo era freddo mentre la fissava, e provò un breve senso di colpa a quelle parole. "Perché devo dubitare di lei?" si disse. "Se è infetta, non potrà andarsene viva. Che ho da temere?"

«Scusami» le disse. «Sono... sono stato solo per troppo tempo.»

Ruth non alzò gli occhi.

«Se ti fa piacere parlare» proseguì Neville «sarò lieto di... dirti quello che posso.»

Lei esitò per un attimo. Poi lo guardò, con occhi che non promettevano nulla.

«Mi farebbe piacere sapere qualcosa dell'infezione» disse. «Per causa sua ho perduto le mie due bambine. E ha causato anche la morte di mio marito.»

La osservò un momento, poi prese a parlare.

«È un bacillo» disse «un batterio cilindrico. Provoca nel sangue una soluzione isotonica, rallenta la circolazione sanguigna, attiva tutte le funzioni del corpo, si nutre di sangue fresco e fornisce energia. Privato del sangue, si autodistrugge con batteriofagi da lui stesso prodotti oppure sporula.»

L'espressione di lei era sconcertata, e lui si rese conto che non doveva aver capito. I termini che erano ormai tanto comuni per lui dovevano esserle del tutto estranei.

«Be'» riprese «molte di queste cose non sono granché importanti. Sporulare vuol dire creare un corpo ovale che possiede tutte le componenti di base del batterio attivo. I germi lo fanno quando non hanno più sangue fresco. Allora, quando il vampiro ospite si decompone, tali spore se ne volano via in cerca di nuovi ospiti. Trovatone uno, germinano... ed ecco infettato un altro organismo.»

Lei scosse incredula la testa.

«I batteriofagi sono proteine inanimate che vengono create anch'esse quando il sistema viene privato del sangue. A differenza delle spore, però, in questo caso il metabolismo anormale distrugge le cellule.»

Le parlò rapidamente dell'imperfetta eliminazione dei rifiuti corporei da parte del sistema linfatico, dell'uso dell'aglio come allergène che causava anafilassi, dei diversi portatori dell'infezione.

«Perché allora noi ne siamo immuni?» domandò lei.

Per un lungo momento rimase a osservarla, evitando ogni risposta. Poi, con un'alzata di spalle, disse: «Non lo so, per quanto ti riguarda. In quanto a me, mentre durante la guerra ero di stanza a Panama, fui morso da un pipistrello vampiro. Per quanto non possa provarlo, la mia teoria è che quel pipistrello avesse incontrato prima un vero vampiro acquisendone il germe vampiris. Il germe induceva il pipistrello a ricercare sangue umano piuttosto che sangue animale. Però, quando il germe penetrò nel mio sistema circolatorio, doveva essersi in qualche modo indebolito attraverso l'organismo del pipistrello. Stetti spaventosamente male, naturalmente, però non mi uccise e, come risultato, il mio corpo è diventato immune a esso. Comunque, questa è solo una teoria. Una spiegazione migliore non riesco a trovarla.»

«Ma... la stessa cosa non accadde ad altri, laggiù?»

«Non lo so» le rispose tranquillo. «Il pipistrello l'ho ucciso.» Alzò le spalle. «Magari ero il primo uomo che aveva attaccato.»

Lo guardò senza dire parola, e quegli occhi scrutatori rendevano Neville inquieto. Proseguì a parlare anche se non ne aveva molta voglia.

Le disse in breve quale fosse l'ostacolo maggiore nei suoi studi sui vampiri.

«Dapprima ho creduto che il paletto dovesse raggiungere il cuore» disse. «Credevo alla leggenda. Ma scoprii che non era così. Ho cacciato paletti in ogni parte dei loro corpi e sono morti. Questo mi portò a pensare che fosse l'emorragia. Ma poi un giorno...»

Le raccontò della donna che si era decomposta dinanzi ai suoi occhi.

«Compresi allora che non poteva essere l'emorragia» proseguì, avvertendo qualcosa come un piacere nel raccontare le proprie scoperte. «Non sapevo che fare. Poi un giorno vi arrivai.»

«A che cosa?» domandò lei.

«Catturai un vampiro morto. Gli posi un braccio in un vuoto d'aria e sotto questo vuoto gli punsi il braccio. Ne uscì il sangue.» Fece una pausa. «Nient'altro accadde.»

Ruth lo fissava.

«Non capisci» osservò lui.

«Io... no» ammise.

«Quando lasciai entrare l'aria nel compartimento a vuoto, il braccio si decompose» disse.

La sua espressione era ancora attonita.

«Capisci» insisté Neville «il bacillo è un saprofito facoltativo. Può vivere con o senza ossigeno; però con una differenza. All'interno dell'organismo, è anaerobico e dà origine a una simbiosi con l'organismo. Il vampiro lo nutre di sangue fresco, il batterio fornisce l'energia che consente al vampiro di procurare altro sangue fresco. I germi causano anche, c'è da aggiungere, la crescita dei canini.»

«Davvero?» disse lei.

«Quando l'aria penetra nell'organismo» proseguì Neville «la situazione muta istantaneamente. Il germe diventa un aerobico e, invece di rimanere in simbiosi, assume un carattere parassitario virulento.» Fece una pausa. «Divora l'ospite» concluse.

«Allora il paletto...» cominciò a dire lei.

«Fa entrare l'aria. È ovvio. La fa entrare e tiene aperta la ferita in modo che la sostanza rimarginante non possa funzionare. Quindi il cuore non c'entra affatto. Adesso mi limito a tagliare profondamente i polsi, in modo che la sostanza rimarginante sia inefficace.» Azzardò un sorriso. «Quando penso al tempo che ho passato a fabbricare paletti!»

Ruth fece un cenno con la testa e, accorgendosi del bicchiere che aveva in mano, lo depose.

«Ecco perché la donna di cui ti ho parlato si è dissolta tanto rapidamente» riprese lui. «Era morta da tanto tempo che appena l'aria ha raggiunto il suo sistema circolatorio i germi ne hanno causato una dissoluzione spontanea.»

Ruth deglutì mentre un brivido la percorreva visibilmente.

«È orribile» commentò.

La guardò sorpreso. Orribile? Che strano. Non l'aveva pensato in tutti quegli anni. Per lui la parola "orrore" era diventata un termine antiquato. Un eccesso di terrore rende ben presto il terrore banale. Per Robert Neville la situazione esisteva puramente come un fatto naturale, privo di aggettivi.

«E quelli che... che sono ancora vivi?» domandò lei.

«Be'» le spiegò «tagliando loro i polsi, il germe diventa naturalmente parassitario. Ma per lo più muoiono per semplice emorragia.»

«Semplice...»

Voltò rapida la testa, stringendo le labbra in una linea dura e sottile.

«Che c'è?» le domandò.

«N... niente. Niente» rispose.

Neville sorrise. «Ci si abitua a queste cose» disse. «È necessario.»

Lei rabbrividì di nuovo, con un tremito nervoso lungo la liscia colonna del collo.

«Nella giungla non puoi sottometterti alle Regole dell'Ordine» le disse. «Credimi, è la sola cosa ch'io possa fare. È forse meglio lasciare che muoiano per l'infezione e tornino... in modo ancora più orribile?»

Lei congiunse nervosamente le mani.

«Ma tu hai detto che tanti tra loro... sono ancora vivi» disse agitata. «Come fai a sapere che non rimarrebbero vivi

«Lo so» le rispose. «Conosco il germe, so come si moltiplica. Per quanto i loro organismi si difendano, alla fine sono i germi che vincono. Ho iniettato antibiotici a decine di loro. Ma non servono a niente, non possono servire a niente. Non è possibile che un vaccino abbia efficacia quando l'infezione è già avanzata. I loro corpi non riescono a combattere i germi e contemporaneamente a creare degli anticorpi. Non è possibile far nulla, credimi. È una trappola. Se non li uccido, presto o tardi morirebbero per poi mettersi a darmi la caccia. Non ho scelta, non ho la minima scelta.»

Rimasero in silenzio e l'unico suono nella stanza era quello prodotto dal graffiare della puntina sugli ultimi solchi del disco. Ruth non voleva guardarlo, fissava invece il pavimento con sguardo opaco. Era strano, pensò Neville, ritrovarsi vagamente sulla difensiva per quello che ieri era una necessità accettata. Negli anni trascorsi non aveva preso nemmeno una volta in considerazione la possibilità di essere nel torto. Era stata necessaria la presenza di quella donna per risvegliare simili pensieri. Ed erano pensieri strani, estranei.

«Pensi davvero che io abbia torto?» le chiese con l'incredulità nella voce.

Lei si morse un labbro.

«Ruth» la chiamò.

«Non sta a me dirlo» gli rispose lei.

 

18

 

«Virge!»

La forma scura si rannicchiò contro la parete quando il rauco grido di Robert Neville squarciò l'oscurità e il silenzio.

Si sollevò di scatto dal divano e scrutò la stanza con sguardo annebbiato dal sonno, mentre il cuore gli batteva nel petto come il tempestare di un pazzo sulla parete della sua cella.

Balzò in piedi, la mente ancora velata dal sonno, incapace di definire tempo e luogo.

«Virge?» ripeté ancora con voce flebile, tremante. «Virge?»

«So... sono io» disse la voce esitante nel buio.

Mosse un passo tremante verso il sottile raggio di luce che filtrava dallo spioncino aperto. Ancora intorpidito, socchiuse gli occhi a quella luce.

Lei soffocò un'esclamazione quando Neville protese una mano e l'afferrò per una spalla.

«Sono Ruth, Ruth»disse con un sussurro pieno di terrore.

Rimase a oscillare lentamente nel buio, gli occhi fissi sulla sagoma scura di fronte a sé senza riuscire a distinguerla.

«Sono Ruth» ripeté lei, con più forza.

Il risveglio giunse come una paralizzante doccia gelata. Provò uno spasmo nel petto e nello stomaco. Non era Virge. Scosse la testa, e si stropicciò gli occhi con dita tremule.

Poi fissò di nuovo quella forma, schiacciato dal peso di un'improvvisa depressione.

«Ah» mormorò debolmente. «Ah, io...»

Non si mosse: sentiva il suo corpo oscillare lentamente nel buio mentre la nebbia del suo cervello si diradava.

Guardò lo spioncino aperto, poi ancora la donna.

«Che stai facendo?» le domandò con voce ancora assonnata.

«Niente» rispose lei nervosamente. «Non... non potevo dormire.»

La luce violenta della lampada lo costrinse a chiudere gli occhi. Poi tolse la mano dall'interruttore e si voltò. Lei stava ancora appoggiata al muro, sbattendo le palpebre per la luce, le mani contratte a pugno sui fianchi.

«Perché ti sei vestita?» le domandò sorpreso.

Deglutì nervosamente nel rimandargli lo sguardo. Neville si strofinò di nuovo gli occhi e si ravviò con le dita i lunghi capelli.

«Stavo... guardavo soltanto fuori» disse lei.

«Ma perché ti sei vestita?»

«Non riuscivo a dormire.»

Continuò a fissarla, ancora intontito, mentre il battito del cuore diminuiva a poco a poco. Attraverso lo spioncino aperto li sentiva urlare dall'esterno, e udì Cortman gridare: «Vieni fuori, Neville!»

Con un passo verso la porta, richiuse lo sportellino di legno e tornò a voltarsi verso di lei.

«Voglio sapere perché ti sei vestita» ripeté.

«Senza motivo» rispose lei.

«Volevi andartene mentre dormivo?»

«No, io...»

«Lo volevi

Ebbe un sussulto quando lui l'afferrò per un polso.

«No, no» si affrettò a dire. «Come avrei potuto, con quelli là fuori?»

Stette a osservarne il viso spaventato, respirando affannosamente, mentre ricordava l'emozione provata nel risvegliarsi credendo che si trattasse di Virge.

Di colpo le lasciò il polso e si volse. E aveva creduto che il passato fosse morto. Quanto ci metteva un passato a morire?

Ruth non aprì bocca mentre lui si versava un bicchiere colmo di whisky e lo beveva agitato. "Virge, Virge" pensò sgomento "ancora con me." Chiuse gli occhi e strinse le mascelle.

«Era quello il suo nome?» sentì Ruth domandare.

I suoi muscoli si irrigidirono, poi si rilassò.

«Tutto bene» disse con voce smorta. «Va' a dormire.»

Lei si ritrasse leggermente. «Scusa» mormorò. «Ti assicuro, non volevo...»

Comprese d'un tratto che non voleva che lei andasse a dormire. Voleva che restasse con lui; non sapeva perché, semplicemente non voleva restare solo.

«Credevo che tu fossi mia moglie» sentì se stesso dire. «Mi sono svegliato e ho creduto...»

Bevve un altro sorso abbondante di whisky, tossendo perché qualche goccia gli andò di traverso. Ruth era rimasta nell'ombra, ad ascoltare.

«Tornò, capisci?» le disse. «La seppellii, ma una notte lei tornò. Sembrava... come tu prima. Una sagoma, un'ombra. Morta. Però era tornata. Provai a tenerla con me. Provai, ma non era più la stessa... capisci? Voleva soltanto...»

Ricacciò un singhiozzo.

«Mia moglie» riprese con voce tremante «era tornata per bere il mio sangue!»

Batté il bicchiere sul ripiano del bar, poi se ne scostò e si diresse irrequieto allo spioncino, si voltò, tornò sui suoi passi e si fermò davanti al bar. Ruth non disse nulla: rimaneva nell'ombra, ad ascoltare.

«L'ho seppellita di nuovo» disse Neville. «Dovetti farle la stessa cosa che avrei fatto agli altri. A mia moglie.» Nella gola gli risuonò un singulto. «Un paletto» disse con voce spaventosa. «Dovetti cacciarle un paletto nel cuore. Era la sola cosa che sapevo. Io...»

Non riuscì a finire. Rimase là a lungo, tremando di disperazione, gli occhi serrati.

Poi riprese a parlare.

«L'ho fatto quasi tre anni fa. E ancora me ne ricordo, è una cosa che è ancora con me. Che dovrei fare? Che dovrei fare?» Batté con forza il pugno sul ripiano del bar, travolto dall'angoscia dei ricordi. «Per quanto ti sforzi, non puoi dimenticare o... non puoi adattarti o... distaccartene mai!»

Si passò le dita tremanti tra i capelli.

«So quel che provi, lo so. Non ti credevo dapprima, non volevo crederti. Ero salvo, sicuro nel mio guscio. Ora...» Scosse la testa, lentamente, avvilito. «In un attimo, tutto finito. Adattamento, sicurezza, pace... tutto finito.»

«Robert.»

La voce di lei era spezzata e smarrita quanto la sua.

«Perché siamo stati puniti così?» domandò lei.

Neville trasse un respiro tremante.

«Non lo so» le rispose con amarezza. «Non c'è risposta, non c'è ragione. È così e basta.»

Adesso lei gli era vicino. E d'un tratto, senza esitazione né repulsione, l'attrasse a sé, e furono due persone che si abbracciavano strettamente nella perduta dimensione della notte.

«Robert, Robert.»

Le mani di lei si aggrapparono alla sua schiena mentre lui la stringeva, premendo il viso sui tiepidi e soffici capelli della donna.

Poi le loro labbra si unirono a lungo e le braccia di lei gli si avvolsero in una stretta disperata intorno al collo.

Poi rimasero a sedere nel buio, stretti l'uno all'altra, come se tutto il calore del mondo si trovasse nei loro corpi e volessero spartire tra loro quel calore. Avvertì il movimento tremante del seno di lei mentre gli si stringeva contro, le braccia strette intorno al corpo, il viso contro il collo di lui. Mosse le mani ad accarezzarle maldestramente i capelli, immergendo le dita tra quei fili serici.

«Mi dispiace, Ruth.»

«Ti dispiace?»

«Di essere stato tanto crudele con te, di non averti creduto.»

Rimase in silenzio, stringendosi a lui.

«Oh, Robert» disse dopo un poco «è ingiusto. È ingiusto. Perché siamo ancora vivi? Perché non siamo morti tutti? Sarebbe meglio se fossimo morti tutti.»

«Sss, sss» mormorò lui, sentendosi commosso per lei come se una corrente gli si riversasse dal cuore e dalla mente. «Andrà tutto bene.»

La sentì scuotere lentamente la testa contro di sé.

«Andrà bene, andrà bene» ripeté.

«Come potrebbe?»

«Andrà bene» disse ancora, anche se sapeva di non potervi credere veramente, anche se sapeva che le parole nella sua mente erano formate soltanto dall'emozione.

«No» disse lei. «No.»

«Sì, andrà bene. Andrà bene, Ruth.»

Non avrebbe saputo dire per quanto tempo fossero rimasti seduti, abbracciati l'uno all'altra. Aveva dimenticato ogni cosa, il tempo e il luogo; erano soltanto loro due, insieme, ognuno necessario all'altro, sopravvissuti a un nero terrore, che si abbracciavano perché si erano trovati.

Ma poi volle fare qualcosa per lei, per aiutarla.

«Vieni» le disse. «Andiamo a esaminarti.»

Gli si irrigidì tra le braccia.

«No, no» si affrettò a dire Neville. «Non aver timore. Sono sicuro che non troveremo niente. Ma anche in caso contrario ti curerò. Giuro che ti curerò, Ruth.»

Lo osservava nell'oscurità, senza dire una parola. Neville si alzò e la trasse a sé, tremando di un'eccitazione che non aveva più provato da anni. Voleva curarla, aiutarla.

«Lascia che lo faccia» le disse. «Non ti farò male. Prometto che non te ne farò. Ma dobbiamo sapere. Essere sicuri. Dopo potremo fare un programma e lavorare. Voglio salvarti, Ruth. Lo voglio. O morirò anch'io.»

Lei era ancora tesa, riluttante.

«Vieni, Ruth.»

Ora che tutta la forza di cui disponeva era svanita, non c'era più nulla a cui potesse aggrapparsi, e stava tremando violentemente.

La guidò in camera da letto. Quando vide alla luce della lampada il suo viso spaventato, l'attirò a sé e le accarezzò i capelli.

«Va tutto bene» la rassicurò «tutto bene, Ruth. Andrà tutto bene, non importa quel che troviamo. Non capisci?»

La fece sedere sullo sgabello; il viso di lei era completamente privo di espressione ma il corpo tremava mentre lui sterilizzava l'ago sul becco Bunsen.

Si chinò e le dette un bacio sulla guancia.

«Va tutto bene ora» le disse gentile «va tutto bene.»

Ruth chiuse gli occhi e lui la punse con l'ago; sentì quasi il dolore nel proprio dito mentre spremeva fuori il sangue e lo strisciava sul vetrino.

«Ecco. Ecco» pronunciò ansioso, premendole un poco di ovatta sul polpastrello ferito. Sentì di star tremando senza poterci far nulla. Per quanto si sforzasse di controllarsi, non vi riusciva. Le sue dita sembravano quasi incapaci di preparare lo striscio, e continuò a guardare Ruth e a sorriderle, nel tentativo di togliere da quel volto il segno della paura.

«Non aver paura» le disse. «Per piacere, no. Ti curerò se sei infetta. Lo farò, Ruth, lo farò.»

Lei stava seduta, senza dire una parola, osservandolo lavorare con sguardo indifferente. Soltanto le mani le si agitavano inquiete in grembo.

«Che farai se... se lo sono?» disse poi.

«Non ne sono sicuro» le rispose. «Non ancora. Ma ci sono tante cose che possiamo fare.»

«Quali?»

«Il vaccino, per esempio.»

«Hai detto che il vaccino non serve» ribatté lei con un tremito nella voce.

«Sì, però...» Si interruppe nell'inserire il vetrino sotto il microscopio.

«Robert, che potresti fare?»

Mentre Neville si chinava sul microscopio, Ruth si sollevò dallo sgabello. «Robert, non guardare!» disse d'un tratto, con voce implorante.

Ma lui aveva già visto.

Non si rese nemmeno conto che gli si era mozzato il fiato. I suoi occhi sconcertati incrociarono quelli di lei.

«Ruth» mormorò con voce attonita.

Il mazzuolo di legno si abbatté sulla sua fronte.

Un dolore acuto riempì la testa di Robert Neville; sentì una gamba cedere. Nel cadere di fianco, rovesciò il microscopio. Con il ginocchio destro toccò il pavimento e alzò uno sguardo sconcertato verso il viso spaventato di lei. Il mazzuolo lo colpì ancora: gridò per il dolore. Cadde sulle ginocchia, poi, nel rovesciarsi, anche le palme delle mani toccarono il pavimento. Da cento chilometri di distanza, la udì singhiozzare.

«Ruth» mormorò.

«Ti avevo detto di non guardare!» esclamò lei piangendo.

Le strinse le gambe e lei lasciò ricadere il mazzuolo per la terza volta, sulla nuca.

«Ruth

Le mani di Robert Neville scivolarono prive di forza lungo le sue gambe, togliendo loro una parte dell'abbronzatura. Cadde a faccia avanti con le mani contratte, mentre la sua mente veniva avvolta dalla notte.

 

19

 

Quando aprì gli occhi non si udiva alcun rumore nella villetta.

Giacque per un momento, a osservare stordito il pavimento. Poi, con un grugnito di dolore, si alzò. Una pioggia di spilli gli esplose nella testa e allora scivolò di nuovo sul pavimento freddo, premendo tra le mani la testa che tambureggiava. Gemendo, si lasciò andare.

Dopo qualche minuto prese a rialzarsi lentamente, aggrappandosi all'orlo del bancone. Il pavimento sembrava oscillare sotto di lui mentre si aggrappava saldamente, gli occhi chiusi, le gambe deboli.

Un momento più tardi si avviò barcollando nel bagno. Là, si bagnò il viso con acqua fredda e sedette sull'orlo della vasca, premendosi sulla fronte un asciugamano bagnato.

Che era successo? Continuò a sbattere le palpebre e a fissare le piastrelle bianche del pavimento.

Si alzò in piedi e si avviò con lentezza nel soggiorno. Era vuoto. La porta d'ingresso era semiaperta nel grigiore del primo mattino. Lei se n'era andata.

Poi ricordò. Tornò faticosamente in camera da letto, appoggiandosi alle pareti.

Il foglio stava sul bancone, accanto al microscopio rovesciato. Lo raccolse con dita intorpidite e se lo portò fino al letto. Là sedette con un gemito, e sollevò la lettera davanti agli occhi. Ma le parole sembravano sfocate e sfuggenti. Scosse la testa e strinse le palpebre. Dopo un poco riuscì a leggere.

 

Robert,

adesso sai. Sai che ti stavo spiando, sai che quasi tutto quello che ti ho detto era bugia.

Scrivo questo, però, perché voglio salvarti, se posso.

Quando fui incaricata di spiarti, non mi importava nulla della tua vita. Perché avevo un marito, Robert. Tu l'hai ucciso.

Ma ora è diverso. Ora so che sei stato costretto in una certa situazione, come noi siamo stati costretti in un'altra. Noi siamo infetti. Ma questo già lo sai. Quel che ancora non puoi capire è che noi rimarremo vivi. Abbiamo trovato un modo per riuscirci e ricostruiremo la società, lentamente, ma sicuramente. Dovremo liberarci di tutte quelle disgraziate creature ingannate dalla morte. E, anche se prego perché non accada, potremmo decidere di uccidere te e quelli come te.

 

"Quelli come me?" pensò trasalendo. Poi continuò a leggere.

 

Cercherò di salvarti. Dirò loro che sei troppo ben armato perché noi possiamo attaccarti adesso. Il tempo che ti lascio, usalo, Robert! Vattene da questa casa, vai sulle montagne, mettiti in salvo. Siamo soltanto in pochi, ora. Ma presto o tardi saremo molti e ben organizzati, e nulla che io possa dire impedirebbe agli altri di ucciderti. Per amor di Dio, Robert, va' via subito, ora che puoi!

So bene che potresti anche non credermi. Potresti non credere che ora possiamo vivere in pieno sole per brevi periodi. Potresti non credere che ora noi possiamo convivere con i germi.

Ecco perché ti lascio una delle mie pillole.

Le ho prese per tutto il tempo che sono rimasta con te. Le tenevo in una cintura. Scoprirai che sono una combinazione di sangue defibrinato e di un farmaco di cui io stessa non conosco l'origine. Il sangue nutre i germi, il farmaco impedisce la loro moltiplicazione. La scoperta di questa pillola ci ha salvati dalla morte, e ci sta aiutando a ricostruire a poco a poco una società.

Credimi, è vero. Fuggi.

Perdonami, anche. Non avrei voluto colpirti, sono stata male nel farlo. Ma ero terribilmente spaventata per quello che avresti potuto fare scoprendo la verità.

Perdonami per aver dovuto mentire su tante cose. Ma, ti prego, a questo credi: quando stavamo insieme al buio, abbracciati, non ti stavo spiando. Ti amavo.

Ruth

 

Rilesse la lettera. Poi le mani gli ricaddero e rimase seduto con lo sguardo vuoto rivolto al pavimento. Non riusciva a crederlo. Scosse lentamente la testa sforzandosi di capire, ma non vi riuscì.

Con passo malfermo si diresse al bancone. Raccolse la piccola pillola ambrata e la tenne sul palmo della mano, l'annusò, l'assaggiò. Sentiva che tutta la sicurezza della ragione si stava allontanando da lui. Tutta la struttura della sua esistenza gli stava crollando addosso e ne era spaventato.

Eppure come poteva negare l'evidenza? La pillola, l'abbronzatura labile delle sue gambe, il suo camminare sotto il sole, la sua reazione all'aglio.

Si sedette sullo sgabello e fissò il mazzuolo abbandonato sul pavimento. A poco a poco, con fatica, la sua mente esaminò le prove.

Quando l'aveva appena veduta, era fuggita da lui. Era stata una finzione? No, si era spaventata davvero. Doveva esser rimasta colpita dal suo grido, allora, anche se doveva esserselo aspettato, dimenticando del tutto l'incarico ricevuto. Più tardi, dopo essersi calmata, l'aveva convinto che la sua reazione all'aglio era la reazione di uno stomaco debole. E aveva mentito e sorriso e finto accettazione e aveva così ottenuto tutte le informazioni che era venuta a cercare. Quando aveva voluto andarsene, non aveva potuto farlo, a causa di Cortman e degli altri. A quel punto lui si era svegliato. Si erano abbracciati, avevano...

Il pugno stretto fino a rendere livide le nocche si abbatté sul piano del bancone. «Ti amavo.» Balle. Balle! Appallottolò il foglio e lo scaraventò lontano, con amarezza.

La collera acuì il dolore alla testa; si premette entrambe le mani contro il capo, chiudendo gli occhi con un gemito.

Poi rialzò la testa. Lento, si alzò dallo sgabello e rimise il microscopio in posizione.

Il resto della lettera non era una menzogna, questo lo sapeva. A parte la pillola, a parte ogni prova di parola o di ricordo, lo sapeva. Sapeva quel che anche Ruth e la sua gente sembravano ignorare.

Guardò a lungo nell'oculare. Sì, lo sapeva. E l'ammissione di quanto vedeva cambiava tutto il suo mondo. Quanto si sentiva idiota e incapace per non averlo previsto! Soprattutto dopo aver letto quella frase un centinaio, un migliaio di volte. Ma allora non era riuscito ad afferrarla veramente. Era una frase tanto breve, e significava molto.

"I batteri possono mutare."

 

PARTE QUARTA

Gennaio 1979

 

20

 

Giunsero di notte. Giunsero con nere auto e con i fari, le pistole, le asce e i paletti. Giunsero dall'oscurità con un suono orrendo di motori; le lunghe braccia bianche dei fari sbucarono dall'angolo del viale per frugare Cimarron Street.

Quando giunsero, Robert Neville era seduto dietro lo spioncino. Aveva abbassato il libro che stava leggendo e stava seduto là a guardare pigramente quando i raggi di luce imbiancarono i volti esangui dei vampiri ed essi si volsero di scatto anelanti, gli scuri occhi animaleschi fissi in quelle luci accecanti.

Neville si ritrasse di scatto dallo spioncino, con il cuore che batteva furiosamente per l'improvvisa emozione. Per un attimo rimase nel buio della stanza, tremante, incapace di decidere che cosa fare. Un nodo gli strinse la gola, mentre udiva il rombare dei motori delle auto anche attraverso l'isolamento della villetta. Pensò alle pistole nel comò, alla pistola mitragliatrice sopra il bancone, pensò di difendere la sua casa.

Poi strinse i pugni fino a che le unghie gli solcarono le palme. No, aveva preso la sua decisione, l'aveva attentamente meditata durante gli ultimi mesi. Non si sarebbe battuto.

Con una pesante sensazione di vuoto allo stomaco ritornò allo spioncino e guardò fuori.

La strada era il teatro di una disordinata e violenta azione illuminata dal bagliore accecante dei fari. Uomini inseguivano uomini, e il rumore degli stivali risuonava sulla strada. Poi si udì il fragore di uno sparo, che riecheggiò cupamente; altri spari.

Due vampiri maschi si abbatterono sul fianco. Quattro uomini li afferrarono e li sollevarono mentre altri due cacciavano nel petto dei vampiri le lucenti punte dei paletti. Il volto di Neville si contrasse in una smorfia, mentre le urla riempivano la notte. Rimase a guardare dallo spioncino, il petto scosso da un respiro ansante.

Gli uomini vestiti di nero sapevano esattamente quel che dovevano fare. C'erano in vista sette vampiri, sei uomini e una donna. Gli uomini neri circondarono i sette, sollevarono le loro deboli braccia e cacciarono in quei corpi la punta acuminata dei paletti. Il sangue sprizzò sul selciato scuro e i vampiri morirono a uno a uno. Neville sentì aumentare il suo tremito. È questa la nuova società? Le parole gli balenarono nella mente. Cercò di convincersi che quegli uomini fossero costretti a comportarsi così, ma il trauma aveva portato con sé un dubbio atroce. Dovevano proprio farlo in quel modo, con un massacro tanto turpe e brutale? Perché dovevano uccidere con scorrerie notturne, quando di giorno i vampiri potevano essere eliminati pacificamente?

Robert Neville strinse i pugni contro i fianchi. Non gli piaceva il loro aspetto, non gli piaceva quel macello metodico. Erano più simili a gangster che a uomini costretti in una situazione. Sui loro volti, bianchi e decisi alla luce dei fari, c'erano espressioni di maligno trionfo. Quei volti erano crudeli e indifferenti.

D'un tratto Neville fu preso da un violento tremito colto da un pensiero. Dov'era Ben Cortman?

Il suo sguardo corse per tutta la strada, ma non riuscì a vedere Cortman. Schiacciò il viso contro lo spioncino e osservò meglio. Non voleva che prendessero Cortman, comprese, non voleva che lo uccidessero in quel modo. Con una sensazione di intima sorpresa, che nell'agitazione del momento non poteva analizzare, comprese che si sentiva più solidale con i vampiri di quanto non lo fosse con i loro boia.

Ora i sette vampiri giacevano scomposti e immobili in pozze di sangue rubato. I fari spazzavano la strada, squarciando la notte. Neville distolse lo sguardo quando il bagliore illuminò il fronte della villetta. Poi il faro cambiò direzione e lui tornò a guardare.

Un grido. Lo sguardo di Neville si diresse verso il punto d'incrocio dei fari.

Si irrigidì.

Cortman era sul tetto della casa al di là della strada. Si stava arrampicando verso il camino, il corpo appiattito contro gli embrici di legno.

D'improvviso Neville capì che proprio in quel camino Ben Cortman si era nascosto il più delle volte, e nel rendersene conto provò una stretta di disperazione. Strinse le labbra. Perché non aveva guardato con maggiore attenzione? Non poteva respingere una nauseante apprensione all'idea di Cortman ucciso da quei brutali stranieri. Oggettivamente era ridicolo, ma non poteva respingere quella sensazione. Non toccava a loro dare l'estremo riposo a Cortman.

Ma non c'era niente che lui potesse fare.

Con sguardo assente e tormentato osservò la luce dei fari concentrarsi sul corpo strisciante di Cortman. Osservò le sue mani bianche protendersi lentamente in cerca di un appiglio sul tetto. Lentamente, lentamente come se Cortman disponesse di tutto il tempo che voleva. Sbrigati! Neville sentì su di sé quella parola mentre guardava. Sentì su di sé la fatica dei movimenti spaventosamente lenti di Cortman.

Gli uomini non gridarono; non furono lanciati ordini. Sollevarono i fucili e la notte fu di nuovo squarciata dal fragore dei loro spari.

Neville sentì quasi le pallottole nella propria carne. Il suo corpo si contrasse per un tremito convulso, in uno con le contrazioni del corpo di Cortman colpito dai proiettili.

Eppure Cortman continuava a strisciare, e Neville vedeva il suo volto bianco, con i denti serrati. La fine di Oliver Hardy, pensò, la morte definitiva della comicità e delle risate. Non sentì più le continue raffiche. Non sentì nemmeno le lacrime scorrergli lungo le guance. Il suo sguardo era inchiodato alla figura goffa del suo vecchio amico che si arrampicava sul tetto illuminato.

Cortman si alzò sulle ginocchia e si aggrappò all'orlo del camino con dita contratte. Barcollò, colpito da altre pallottole. I suoi occhi scuri luccicarono nella luce abbagliante dei fari, le labbra erano ritratte in un ringhio privo di suono.

Poi eccolo ritto accanto al camino; il viso di Neville era bianco e rigido mentre guardava Cortman che cominciava ad alzare la gamba destra.

E poi il martellamento dei mitra imbottì di piombo la carne di Cortman. Per un attimo Cortman rimase eretto sotto la raffica, le mani rigide sollevate alte sopra la testa, mentre un'espressione di sfida rabbiosa gli contorceva i tratti pallidi.

«Ben» mormorò Neville in un rauco sussurro.

Il corpo di Ben Cortman si piegò, stramazzò in avanti, cadde. Scivolò e rotolò lentamente lungo la pendenza degli embrici, poi cadde nel vuoto. Nell'improvviso silenzio Neville udì il tonfo dal lato opposto della strada. Disgustato, osservò gli uomini correre con i paletti verso il corpo sussultante.

Poi Neville chiuse gli occhi e le sue unghie affondarono nelle palme.

Un risuonare di passi. Neville si ritrasse nell'oscurità. Rimase in mezzo alla stanza, irrigidito, in attesa che lo chiamassero e gli dicessero di uscire. "Non mi batterò", si disse con decisione. Anche se provava il desiderio di battersi, anche se ormai odiava quegli uomini neri con i loro fucili e i loro paletti insanguinati.

Ma non si sarebbe battuto. Aveva preso la sua decisione, dopo aver molto riflettuto. Essi facevano quel che dovevano fare, benché con una violenza inutile e con evidente piacere. Lui aveva ucciso la loro gente ed essi dovevano catturarlo e salvarsi. Non si sarebbe battuto. Si era messo sul piatto della giustizia di quella nuova società. Quando l'avessero chiamato, sarebbe uscito per arrendersi; era questa la sua decisione.

Ma non lo chiamarono. Neville balzò all'indietro con un sussulto quando l'ascia colpì profondamente la porta d'ingresso. Prese a tremare nel buio del soggiorno. Che stavano facendo? Perché non gli chiedevano di arrendersi? Non era un vampiro, era un uomo come loro. Che stavano facendo?

Si voltò di scatto, lo sguardo rivolto alla cucina, stavano cercando di abbattere anche la porta posteriore. Con passo nervoso, si mosse verso il corridoio. Il suo sguardo impaurito correva da una all'altra delle porte. Sentì il cuore battergli furiosamente. Non capiva, non capiva!

Con un grido soffocato di sorpresa, corse nel corridoio quando la porta sbarrata fu scossa da un colpo di pistola. Quegli uomini stavano facendo saltare a revolverate la serratura della porta d'ingresso. Il fragore di un altro sparo gli assordò le orecchie.

E, d'improvviso, capì. Non l'avrebbero portato davanti ai loro tribunali, alla loro giustizia. Volevano massacrarlo.

Con un mormorio di spavento corse nella camera da letto. Le sue mani frugarono febbrilmente nel cassetto del comò.

Si eresse, le gambe malferme, le pistole tra le mani. E, se invece avessero voluto farlo prigioniero? Si era basato solo sul fatto che non gli avevano intimato di uscire. Non c'erano luci nella villetta; pensavano forse che se ne fosse già andato.

Continuò a tremare nell'oscurità della camera da letto, senza sapere che fare; mugolii di terrore gli chiudevano la gola. Perché non se ne era andato? Perché non aveva dato ascolto a Ruth e non se ne era andato? Pazzo!

Le dita infiacchite lasciarono cadere una delle pistole quando fu abbattuta la porta d'ingresso. Passi pesanti risuonarono nel soggiorno e Robert Neville arretrò strascicando i piedi sul pavimento, la pistola rimastagli puntata in avanti in una stretta rigida ed esangue. Non l'avrebbero ucciso senza che si fosse battuto!

Sussultò nell'urtare contro il bancone. Rimase lì come paralizzato. Nel soggiorno, un uomo disse qualcosa che non riuscì a capire, poi i raggi delle lampade illuminarono il corridoio. Neville trattenne il fiato. Sembrava che la stanza vorticasse intorno a lui. "Questa dunque è la fine." Non riuscì a pensare ad altro. "Questa dunque è la fine."

Passi pesanti risuonarono nel corridoio: Neville strinse maggiormente le dita sul calcio della pistola e il suo sguardo terrorizzato si fissò sulla porta.

Entrarono due uomini.

I raggi delle loro lampade frugarono la stanza, raggiunsero il suo viso. I due uomini retrocessero d'un balzo.

«Ha una pistola!» gridò uno di loro e sparò.

Neville udì la pallottola schiantarsi contro il muro sopra la sua testa. Poi la pistola gli sussultò nella mano, illuminandogli a tratti la faccia. Non sparò a uno di loro in particolare; continuò soltanto a tenere meccanicamente premuto il grilletto. Uno degli uomini gridò di dolore.

Poi Neville sentì come una mazzata violenta nel petto. Barcollò all'indietro, vacillando, mentre un dolore bruciante gli esplodeva nel corpo. Fece fuoco ancora una volta, poi si abbatté sulle ginocchia, mentre la pistola gli cadeva dalla mano.

«L'hai preso!» sentì che qualcuno gridava mentre lui cadeva a faccia avanti. Cercò di riafferrare la pistola, ma uno stivale nero calò sulla sua mano, spezzandola. Neville ritrasse la mano con un rantolo soffocato e rimase a fissare il pavimento con occhi sofferenti.

Mani brutali lo afferrarono sotto le ascelle e lo sollevarono. Continuò a chiedersi quando gli avrebbero sparato di nuovo. "Virge" pensò "Virge, sto venendo da te." Il dolore al petto era come piombo fuso riversato in lui da grande altezza. Sentì e udì la punta dei suoi stivali grattare il pavimento, e attese la morte. "Voglio morire nella mia casa" pensò. Si dibatté debolmente, ma essi non si fermarono. Un dolore bruciante gli graffiò il petto mentre lo trascinavano attraverso il soggiorno.

«No» gemette. «No.»

Il dolore gli salì dal petto a trafiggergli il cervello. Ogni cosa prese a vorticare fino a diventare tenebra.

«Virge» mormorò in un sussurro rauco.

E gli uomini neri trascinarono il suo corpo inerte fuori dalla villetta. Nel buio della notte. Nel mondo che apparteneva a loro e non più a lui.

 

21

 

Un suono; un mormorio frusciante nell'aria. Robert Neville tossì debolmente, poi fece una smorfia per il dolore che gli si risvegliava nel petto. Un gemito gorgogliante gli salì alle labbra e la testa oscillò leggermente sul cuscino basso. Il suono si fece più forte, diventò un ribollente miscuglio di rumori. Le mani, adagiate ai fianchi, si contrassero lentamente. Perché non gli toglievano quel fuoco nel petto? Gli sembrava che carboni ardenti gli cadessero sulla carne viva. Un altro gemito, doloroso e affaticato, gli distorse le labbra pallide. Poi riuscì ad aprire gli occhi.

Rimase ad osservare per un intero minuto il soffitto grezzo imbiancato senza batter le palpebre. Il dolore defluiva e ritornava nel petto con un palpito interminabile e tormentoso. Il suo viso rimaneva una maschera dura e tesa di resistenza al dolore. Se si rilassava per un secondo, il dolore s'impadroniva di lui completamente; doveva combatterlo. Per i primi minuti riuscì soltanto a resistere al dolore, soffrendo per le sue fitte brucianti. Dopo un poco, però, il cervello riprese a funzionare; lentamente, come una macchina che procede a sussulti che parte e si ferma, in un groviglio di ingranaggi rugginosi.

"Dove sono?" Fu il suo primo pensiero. Il dolore era terribile. Si guardò il petto e vide che era fasciato con un'ampia benda, occupata al centro da una grande umida macchia rossa che sussultava con il suo respiro. Chiuse gli occhi e deglutì. "Sono ferito" pensò. "Sono ferito gravemente." Sentì la bocca e la gola asciutte e secche. Dove sono, come sono...

Poi ricordò; gli uomini in nero e l'attacco alla villetta. E seppe dove si trovava prima ancora di volgere la testa, lentamente, dolorosamente, per vedere le finestre sbarrate che erano dall'altro lato del cubicolo. Fissò le finestre per lungo tempo, il viso tirato, i denti stretti. Il suono veniva da fuori: quel suono frusciante e confuso.

Lasciò ricadere la testa sul cuscino e giacque con lo sguardo fisso al soffitto. Era difficile comprendere il momento nei suoi giusti termini. Difficile credere che non si trattasse di un incubo. Tre anni e più solo nella sua casa. Adesso, questo.

Ma non poteva dubitare dell'acuto e irrequieto dolore al petto e non poteva dubitare dell'umida e rossa macchia che continuava ad allargarsi, ad allargarsi. Chiuse gli occhi. "Sto morendo" pensò.

Cercò di rendersene conto. Ma non serviva lo stesso. Nonostante avesse vissuto a fianco della morte per tutti quegli anni, nonostante avesse camminato sulla corda tesa di un'esistenza vuota attraverso un interminabile percorso di morte... nonostante tutto questo non poteva capirlo. La sua morte era ancora qualcosa al di là della sua comprensione.

Era ancora supino, quando la porta alle sue spalle si aprì.

Non poteva voltarsi; sentiva troppo dolore. Rimase disteso ad ascoltare i passi che si avvicinavano al letto, poi si arrestavano. Guardò in su, ma la persona non era ancora nel suo campo visivo. "Il mio boia" pensò "la giustizia di questa nuova società." Chiuse gli occhi e attese.

I passi avanzarono di nuovo, finché Neville capì che la persona era al suo fianco. Cercò di deglutire, ma aveva la gola troppo secca. Si passò la lingua sulle labbra.

«Hai sete?»

La guardò con sguardo opaco e d'improvviso il suo cuore cominciò a battere furiosamente. L'aumento del flusso sanguigno gli fece aumentare il dolore che per un attimo lo travolse. Non poté soffocare un gemito di sofferenza. Girò la testa sul cuscino, mordendosi le labbra e stringendo febbrilmente la coperta. La macchia rossa continuò ad allargarsi.

Lei si era inginocchiata per tergergli il sudore dalla fronte, e passargli sulle labbra un panno umido e fresco. Il dolore cominciò lentamente a placarsi e il viso di lei si mise lentamente a fuoco. Neville giacque immobile, fissandola con occhi pieni di dolore.

«Ah» disse infine Neville.

Non gli rispose. Si rialzò e sedette sul bordo del letto. Gli asciugò di nuovo la fronte. Poi si protese oltre la sua testa e Neville udì versare dell'acqua in un bicchiere.

Il dolore penetrò in lui come la lama di un rasoio, mentre Ruth gli sollevava un poco la testa perché potesse bere. "Ecco quello che dovevano provare quando erano trafitti dai paletti" pensò. "Questa agonia tagliente, penetrante, la fuga del sangue vitale."

La testa gli ricadde sul cuscino.

«Grazie» mormorò.

Lei lo guardava; sul suo volto c'era uno strano miscuglio di comprensione e di distacco. I suoi capelli rossi erano legati a crocchia sulla nuca, con un fermaglio. Aveva un aspetto molto ordinato e composto.

«Non hai voluto credermi, vero?» gli disse.

Un colpo di tosse gli gonfiò le gote. Aprì la bocca e aspirò un po' dell'umidità mattutina.

«Io... ti ho creduto» rispose.

«E allora perché non te ne sei andato?»

Cercò di parlare, ma le parole gli si accavallarono. Deglutì e aspirò di nuovo debolmente.

«Non... non potevo» mormorò. «Sono stato sul punto di farlo parecchie volte. Una volta avevo persino fatto i bagagli e... stavo per partire. Ma non potevo, non potevo... andare. Ero troppo abituato a... alla casa. Era un'abitudine, proprio... proprio come l'abitudine alla vita. Mi ci ero... abituato.»

Lo sguardo di Ruth si soffermò sul suo volto bagnato di sudore; strinse le labbra mentre gli asciugava di nuovo la fronte.

«Ora è troppo tardi» disse infine. «Lo sai, vero?»

Sentì qualcosa in gola e deglutì.

«Lo so» rispose.

Cercò di sorridere, ma le sue labbra si piegarono in una smorfia.

«Perché ti sei battuto?» aggiunse Ruth. «Avevano l'ordine di prenderti senza farti male. Se tu non avessi sparato, non ti avrebbero fatto alcun male.»

La gola gli si chiuse.

«Che differenza...» disse boccheggiando.

Chiuse gli occhi e strinse con forza i denti per ricacciare il dolore.

Quando li aprì di nuovo, lei era ancora lì. L'espressione del suo viso non era cambiata.

Il sorriso di Neville era debole e distorto.

«La vostra... la vostra società è... davvero splendida» disse affannosamente. «Chi sono quei... quei gangster che sono venuti a prendermi? La vostra... polizia municipale?»

Il suo sguardo era calmo. "È cambiata" pensò d'un tratto.

«Le nuove società sono sempre primitive» lei gli rispose. «Dovresti saperlo. In un certo modo siamo come un gruppo rivoluzionario... che rientra in possesso della società con la violenza. È inevitabile. La violenza non ti è estranea. Tu hai ucciso. Molte volte.»

«Soltanto per... per sopravvivere.»

«È esattamente per questo che uccidiamo» disse lei con calma. «Per sopravvivere. Non possiamo permettere ai morti di esistere al fianco dei vivi. I loro cervelli sono indeboliti, esistono per un solo scopo. Essi devono essere distrutti. Essendo una persona che uccideva i morti e i vivi, lo sai.»

Neville fece un profondo respiro e il dolore gli straziò il corpo. I suoi occhi erano induriti dalla sofferenza mentre tremava. "Deve finire presto" pensò. "Non potrei sopportarlo ancora." No, la morte non lo spaventava. Non la capiva, ma non ne aveva nemmeno paura.

Il dolore si calmò e le nubi scomparvero dai suoi occhi. Osservò il volto calmo della donna.

«Lo spero» disse. «Ma... ma hai visto le loro facce quando... quando uccidevano?» Deglutì convulsamente. «Gioia» mormorò. «Pura gioia.»

Il sorriso di Ruth era sottile e freddo. Era cambiata, pensò, completamente.

«Hai mai visto la tua faccia» gli chiese «quando uccidevi?» Gli asciugò la fronte con il panno. «Io l'ho vista... ricordi? Era spaventosa. E allora non stavi nemmeno uccidendo, stavi soltanto inseguendo me.»

Neville chiuse gli occhi. "Perché la sto ad ascoltare?" pensò. "È diventata una stupida adepta di questa nuova violenza."

«Forse hai visto veramente la gioia sui loro volti» continuò. «Non è strano. Essi sono giovani. E sono assassini... assassini designati, assassini legali. Sono rispettati per i loro assassinii e ammirati per questo. Che ti aspetti da loro? Sono soltanto uomini fallibili. E gli uomini possono imparare la gioia di uccidere. Questa è una vecchia storia, Neville. E tu la conosci.»

Neville la guardò. Il suo era il sorriso tirato, sforzato, di una donna che stava cercando di dimenticare di essere donna, a favore di una causa.

«Robert Neville» disse «l'ultimo della vecchia specie.»

Neville si irrigidì.

«L'ultimo?» mormorò, avvertendo in sé la pesante sensazione di assoluta solitudine.

«Per quanto ne sappiamo» rispose lei, in tono indifferente. «Tu sei veramente l'unico, lo sai? Quando sarai sparito, non ci sarà nessun altro come te in mezzo alla nostra particolare società.»

Neville guardò verso la finestra.

«C'è... gente... fuori» disse.

Lei annuì. «Stanno aspettando.»

«La mia morte?»

«La tua esecuzione» rispose.

Si irrigidì, volgendo lo sguardo verso di lei.

«Sarà meglio che vi sbrighiate» disse, senza paura, con un improvviso tono di sfida nella voce rauca.

Si guardarono per un lungo momento. Poi qualcosa sembrò cedere in lei. Il viso le si sbiancò.

«Lo sapevo» disse sommessamente. «Sapevo che non avresti avuto paura.»

D'impulso posò la mano sopra quella di lui.

«Quando ho sentito dell'attacco alla tua casa, volevo venire ad avvertirti. Ma poi compresi che se tu fossi stato ancora lì, niente ti avrebbe fatto fuggire. Allora mi preparai a farti fuggire dopo che ti avessero catturato. Ma poi mi dissero che eri stato ferito e compresi che anche la fuga era diventata impossibile.»

Un sorriso le errò sulle labbra.

«Sono contenta che tu non abbia paura» gli disse. «Sei davvero coraggioso.» La sua voce si ammorbidi. «Robert.»

Rimasero in silenzio; sentì la mano di Ruth stringere la sua.

«Com'è che puoi... entrare qui?» le chiese poi.

«Sono un funzionario importante nella nuova società» rispose.

La mano di Neville si contrasse sotto quelle di lei.

«Fa'... che la nuova società non...» Sputò, tossendo, un poco di sangue. «Fa' che non... sia troppo brutale. Troppo crudele.»

«Che cosa posso...» cominciò lei, poi si fermò. Gli sorrise. «Tenterò» promise.

Neville non riuscì a proseguire. Il dolore peggiorava di continuo. Si agitava e rivoltava in lui come l'artiglio di una fiera.

Ruth si chinò su di lui.

«Robert» gli disse «ascoltami. Vogliono giustiziarti. Anche se sei ferito. Devono. Quella gente è stata fuori tutta la notte ad aspettare. Sono terrorizzati da molto tempo a causa tua, Robert, ti odiano. E vogliono la tua vita.»

Alzò la mano e, rapida, si sbottonò la camicetta. Si frugò nel reggiseno e ne estrasse un minuscolo pacchetto che gli depose sul palmo della mano destra.

«È tutto quello che posso fare, Robert» sussurrò «perché sia più facile. Ti avevo avvertito, ti avevo detto di andartene.» La sua voce sembrò incrinarsi. «Non puoi combatterne tanti, Robert.»

«Lo so.» Le parole erano come suoni strozzati nella sua gola.

Per un momento rimase di fianco alla cuccetta, una espressione naturale di pietà sul suo volto. "È tutta una finzione", pensò lui, "venir qui, in modo così ufficiale. Ha paura di essere soltanto se stessa. Posso capirla."

Ruth si chinò su di lui e posò le fresche labbra sulle sue.

«Sarai presto con lei» mormorò in fretta.

Poi si risollevò stringendo le labbra. Si riabbottonò la camicetta. Rimase a osservarlo ancora per un momento. Poi accennò con lo sguardo alla sua mano destra.

«Prendile presto» mormorò e si allontanò rapida.

Neville udì i passi risuonare sul pavimento. Poi la porta fu richiusa e sentì lo scatto della serratura. Chiuse gli occhi mentre calde lacrime gli spuntavano da sotto le palpebre. "Addio, Ruth."

Addio, a tutto.

Poi, d'improvviso, respirò affannosamente. Puntellandosi, si alzò a sedere. Rifiutò di lasciarsi andare a causa del dolore bruciante che gli era esploso nel petto. I denti serrati, si alzò in piedi. Per poco non cadde, ma, ripreso l'equilibrio, attraversò la stanzetta, barcollando su gambe tremule che quasi non sentiva.

Si aggrappò alla finestra e guardò fuori.

La strada era piena di gente. Si muovevano confusamente nella grigia luce del mattino; il suono delle loro parole era simile al ronzio di un milione di insetti.

Osservò quella gente, con la mano sinistra dalle dita esangui aggrappata alle sbarre e gli occhi febbricitanti.

Poi qualcuno lo vide.

Per un momento ci fu un crescente brusio, alcune grida di sorpresa.

Poi un improvviso silenzio, come se una pesante coperta fosse caduta sulle loro teste. Rimasero tutti con lo sguardo fisso verso di lui, con le bianche facce rivolte verso l'alto. E lui sostenne quegli sguardi. E di colpo pensò: "Ora sono io l'anormale. La normalità è un concetto di maggioranza, la norma di molti, e non la norma di uno solo."

Quel pensiero all'improvviso si fuse con quello che vedeva sulle loro facce: timore, paura, orrore; e comprese che avevano paura di lui. Per loro, lui era una terribile calamità che mai avevano veduta, una calamità anche peggiore dell'infezione a cui si erano adattati. Lui era un invisibile spettro che lasciava quale prova della sua esistenza i corpi dissanguati dei loro cari. Capiva quel che provavano e non li odiava. La sua mano si strinse sul minuscolo involucro delle pillole. Per fare in modo che la fine non giungesse con violenza, per fare in modo che non divenisse una macellazione davanti ai loro occhi...

Robert Neville guardò il nuovo popolo della terra. Sapeva di non farne parte: sapeva che, come un tempo i vampiri, lui era un anatema e un nero terrore da distruggersi. E, di colpo, il concetto si formò, divertente nonostante il dolore.

Una risata soffocata gli salì alla gola. Si voltò, si appoggiò alla parete, inghiottì le pillole. "Il cerchio si chiude" pensò mentre il letargo finale si impadroniva delle sue membra. "Il cerchio si chiude. Un nuovo terrore nasce nella morte, una nuova superstizione penetra nell'inespugnabile fortezza dell'eternità.

"Io sono diventato una leggenda."

 

FINE